Due note e apprezzate giornaliste, Gianna Fregonara e Orsola Riva, che periodicamente si occupano sulle pagine del maggior quotidiano italiano di cronache scolastiche, hanno recentemente dato alle stampe un volume dal titolo accattivante: Non sparate sulla scuola. Tutto quello che non vi dicono sull’istruzione in Italia (Solferino, 2023). Anziché inoltrarsi nei crepacci insidiosi delle teorie e proposte in campo, Fregonara e Riva si attengono ai fatti, basandosi su dati oggettivi attraverso cui inquadrano lo stato di salute dell’istruzione italiana. Ne scaturisce uno scenario a chiaroscuro, né esageratamente critico (come accade spesso con le analisi di Ernesto Galli della Loggia), né impastato di malinconica nostalgia all’insegna del “bel tempo che fu” che fa da basso continuo ai testi di Paola Mastrocola.
Un libro, dunque, che si tiene lontano da ogni eccesso, esamina con piglio energico virtù e debolezze della scuola italiana, ponendo soprattutto in evidenza la complessità di gestire un mastodontico sistema assai differenziato nel suo interno (secondo l’Invalsi esistono almeno 3 o 4 Italie scolastiche), affollato di alcuni milioni di insegnanti e studenti, affaticato da una burocrazia di eredità tardo ottocentesca, pressato da genitori sempre più invadenti che pretendono/pretenderebbero che il figlio, anche se nel torto, abbia sempre ragione. Due le principali tracce intorno a cui si svolge la riflessione delle autrici.
La prima è che la scuola non è uguale per tutti per ragioni logistiche, per le condizioni di precarietà economica di una parte non secondaria delle famiglie (che spesso si traduce in povertà educativa), per la diversa qualità e quantità dei servizi che la fiancheggiano, per la differente attenzione con cui è guardata la scuola da amministratori, studenti e famiglie. Abbastanza diffusa è la convinzione, sicuramente esagerata, secondo cui essa “non servirebbe” e molto meglio sarebbe auto-formarsi attraverso le risorse poste a disposizione dal mondo digitale e dalle esperienze maturate direttamente sul posto di lavoro. L’intrecciarsi di queste difficoltà produce fenomeni assai inquietanti: l’alto numero di precoci abbandoni accompagnato purtroppo dalla mediocrità della preparazione di chi pur completa il ciclo di studi (circa il 50%, secondo le rilevazioni Invalsi, manifesta carenze in lingua e matematica). Ritirandosi da scuola o frequentandola senza interesse questi allievi sono condannati alla marginalità, ipotecando negativamente il loro futuro.
La seconda pista di lavoro seguita dalle autrici riguarda il futuro della scuola ormai sfidata non solo da una diffusa digitalizzazione, ma dal moltiplicarsi di attività basate sull’Intelligenza Artificiale e da un mondo del lavoro che sta cambiando molto rapidamente. Una solida formazione di base rimane un’esigenza irrinunciabile, ma non si può immaginare che le conoscenze acquisite secondo il percorso lineare previsto dal sistema attuale (scuola dell’infanzia e primaria, istruzione secondaria, università) riesca a soddisfare le esigenze che si presenteranno agli allievi appena entrati a settembre 2023 nella scuola primaria tra 15-20-30 anni. Occorrerebbe perciò pensare a un sistema educativo agile e flessibile, sia sul versante della scuola tradizionale sia nella formazione post-scolastica e nel corso del lavoro. E invece, come scrivono le autrici, siamo in presenza di una scuola immobile che, per esempio, conserva immutata, o quasi, l’ex scuola media del 1962 immaginata per i preadolescenti di allora e oggi felicemente nonni.
Le riflessioni di Fregonara e Riva non sfuggono alla ragnatela del funzionalismo socioeconomico che, non solo in Italia, domina da almeno tre decenni la scena della politica scolastica, sui cui presupposti dovrebbe modellarsi una scuola più inclusiva, più disposta al cambiamento, in linea con le sollecitazioni di una società in profonda transizione. Peccato che la lente funzionalistica rischi di deformare la realtà e confondere i dati statistici con la quotidianità della vita scolastica: quella – tanto per intenderci – che è fatta da ragazzi e adulti che trascorrono insieme molte ore delle loro giornate, più o meno gradevoli nella misura in cui scatta tra gli uni e gli altri quella particolare “chimica” fatta da dimensioni immateriali che nessuna media statistica è in grado di quantificare. Eppure sono proprio queste alla base di una scuola che non solo trasmette conoscenze e competenze, ma aiuta a diventare adulti responsabili, ad apprezzare la bellezza, a sentirsi parte di una comunità nella quale si vive da cittadini liberi.
Daniel Pennac ricorda nel suo Diario di scuola come da studente svogliato sia diventato uno studente affamato di conoscenze grazie all’incontro con un docente che lo seppe motivare e valorizzare. Perché, annota ancora lo scrittore transalpino, “statisticamente tutto si spiega, personalmente tutto si complica”. Sono questi i “miracoli” che fa la scuola quando si stabilisce un buon rapporto, l’adulto sa fare l’adulto e l’allievo lo riconosce come guida affidabile. Il punto di osservazione del libro è invece un altro: i principali protagonisti della scuola restano sullo sfondo, come parte silente di scenari disegnati da altri: i politici, gli esperti di organizzazione, i valutatori, i grandi centri (dall’OCSE al Word Economic Forum) che pilotano le scelte strategiche dei governi.
Sarebbe naturalmente un imperdonabile errore contrapporre efficienza (necessaria) e coltivazione dell’umano: ma occorre anche dire a voce alta che abbiamo bisogno di insegnanti-educatori e non solo abili addestratori; adulti capaci di buone relazioni, di stimolare le risorse degli allievi, giustamente severi ma anche ragionevolmente comprensivi. Forse è questo, per riprendere il sotto titolo del libro, che in questo momento non ci viene raccontato sull’istruzione italiana.
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