Nel silenzio assordante di sindacati, famiglie e insegnanti s’è dunque compiuto l’ultimo atto autolesionistico della scuola italiana. Le dimissioni di Lorenzo Fioramonti segnano l’uscita di scena del ministro dell’Istruzione numero 42 in 71 anni di storia repubblicana, alla bella media di uno ogni diciannove mesi di governo. Probabilmente un record mondiale.



Degli ultimi cinque o sei ci siamo un po’ tutti dimenticati perfino il nome, ricordando forse soltanto le miniriforme che ciascuno ha creduto opportuno introdurre e che invariabilmente sono state cancellate o almeno modificate dal successore. Sulla scorta dell’azzeccato articolo di Gianfranco Lauretano, non possiamo che concordare sul fatto che di scuola, in tutti i modi e in tutte le salse, ogni governo si riempie la bocca fin dal suo insediamento, salvo poi scordarsene il giorno appresso.



Non entro qui nell’opportunità o meno delle dimissioni di Fioramonti (per altro, uniche nel suo genere in Italia), ma punto il dito su una discrasia di tali proporzioni che solo un cieco può non vedere: da un lato governi di ogni colore che investono sulla scuola le briciole del loro bilancio, dall’altro la montagna di interventi in materia che proviene dal variegato mondo della cultura. Dal momento che è difficile tenere conto in modo puntuale degli articoli giornalistici, ormai quasi quotidiani, ci limiteremo a ricordare quanto sfornato dalle case editrici negli ultimi dodici mesi (e anche qui non siamo affatto sicuri di ricordare tutti i titoli).



In Ultimo banco. Perché insegnanti e studenti possono salvare l’Italia (Solferino), Giovanni Floris scrive: “È un fatto: ai tempi in cui a scuola non si tiravano i cestini addosso agli insegnanti, in Parlamento non si tiravano schiaffi a chi tentava di saltare sul tavolo della presidenza, non si insultavano le deputate con epiteti sessisti, non si stappava champagne e non si mangiava mortadella con le mani. Oggi, invece, sono scene alla portata di qualunque tg”.

Per Paola Mastrocola, “lo studio è sparito dalle nostre vite. Nessuno studia più. Se ne può fare a meno. E non ci piace, né per noi, né per i nostri figli. Lo studio sa di muffa, è passato, è vecchiume. È la scuola” (La passione ribelle, Laterza).

Ernesto Galli della Loggia ha scelto per il suo saggio un titolo che più emblematico non si può (L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio) e afferma: “La scuola è sempre più orientata alla contemporaneità e allo studio delle materie tecnico-scientifiche” e quindi “si pone in netta contraddizione con uno dei suoi principali assunti pedagogici. Mentre vuole che ogni studente sia incoraggiato ad esprimere la propria individualità e mira a promuovere la diversità delle opinioni, allo stesso tempo tende invece a dare il massimo spazio alle discipline scientifiche. Discipline dominate dal rigore impersonale della concatenazione logica. È certo singolare che di una simile contraddizione non mostrino mai di rendersi conto gli esperti e i burocrati dell’istruzione”.

Matteo Bussola in Sono puri i loro sogni (Einaudi) la butta sul ridere: “Trent’anni fa, due mamme si incontrano davanti alla scuola Eugenio Montale. – Cioè, quello scemo di mio figlio sai cos’ha fatto ieri in classe? – Guarda, non può essere scemo come il mio, aspetta che ti racconto. Ridono. Oggi, due mamme si incontrano su una chat di WhatsApp. – Cioè, quella deficiente della maestra sai cosa ha fatto ieri in classe? – Quale? Dici quella di Italiano o quella di Matematica? Faccine che ridono”.

Tra la scuola del “sapere” sempre più affossata sotto le “competenze” e quella del “fare” che ormai è imperante, Federico Condello in La scuola giusta (Mondadori) parteggia senza dubbio per la prima: “Il liceo classico è stato uno straordinario, coraggioso, riuscito esperimento di democrazia scolastica, volto a rendere patrimonio diffuso quel che per secoli è stato cultura d’élite. Perciò avrà a cuore il liceo classico non chi ha a cuore il greco e il latino, ma chi ha a cuore una scuola giusta”.

E poi Susanna Tamaro, che ancora per Solferino ha scritto Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere, il dovere di educare, se la prende con la scuola che “ormai da troppo tempo” s’è assunta il compito di “non creare ostacoli, di permettere a tutti di raggiungere l’agognato pezzo di carta – perché questa è la più alta e più perversa forma di democrazia – ma promuovere gli ignoranti e i negligenti, le persone che si preparano per un mestiere per cui non avranno la minima competenza è davvero un rendimento, o è piuttosto un fallimento? A quale efficienza mira questa sistema? Direi soltanto a quella delle statistiche. Tot iscritti, tot promossi. La scuola funziona!”. L’elenco sarebbe più lungo, ma ci fermiamo qui.

È molto probabile che il ministro, oggi “solo” deputato, Lorenzo Fioramonti non fosse al corrente di questa spaccatura verticale tra chi la scuola la giudica dalla scrivania di un ministero e chi la guarda per quella che è. Troppo lontana l’università di Pretoria, dove insegna, per rendersene conto. Della sua dipartita ministeriale ci scorderemo presto, così come abbiamo fatto – e non per colpa nostra – con i suoi più recenti predecessori. Gli uomini (e le donne) passano, la scuola resta. In attesa della prossima, inconcludente miniriforma.