Dopo l’avvento di chatGPT in molti, forse, abbiamo pensato che le nuove tecnologie digitali fossero davvero “intelligenti”. Con chatGPT possiamo dialogare e abbiamo l’impressione che sappia rispondere a tutte le domande che poniamo, per lo meno in modo simile all’intelligenza umana. Sappiamo che non conosce il significato di ciò che produce, ma funziona.



Mi chiedevo: l’intelligenza artificiale è solo un mezzo, potentissimo, a nostra disposizione per rendere più efficienti le nostre funzioni di ricerca e di elaborazione o cambia anche il nostro modo di pensare la realtà, il nostro modo di concepirci rispetto ad essa? Soprattutto, come l’AI incide nell’educazione dei giovani?



Provo a rispondere prendendo spunto da un banale episodio che mi è successo recentemente. Avevo bisogno di trovare la citazione esatta di una affermazione del filosofo americano Richard Rorty. Io la ricordavo così: “quando si parla della verità bisogna cambiare discorso”. Mi interessava questa espressione per mettere in evidenza la posizione del filosofo. Ho consultato Google, ma non ho trovato la risposta che cercavo. Ho perciò fatto ricorso a chatGPT, che effettivamente riconosceva in questa espressione il pensiero di Rorty, così come anche di altri filosofi, ma non sapeva ritrovare la citazione che cercavo. Le parole di chatGPT sono state: “Non sembra che sia una citazione letterale di Richard Rorty”. Di fronte al verdetto di chatGPT, la mia ricerca sembrava finita o poteva ritenersi conclusa. Tuttavia, proprio leggendo alcuni articoli su questo tema ho trovato un’espressione equivalente a quella che cercavo. Lo stesso Rorty, infatti, sostiene che nell’impossibilità di trovare risposte i filosofi dovrebbero “cambiare argomento”. A questo punto mi è bastato sostituire “discorso” con “argomento” per trovare la citazione precisa di Rorty.



Questo episodio mi ha fatto ricordare un amico appassionato della flora alpina che, durante un’escursione nella magnifica zona del San Bernardino, nel Canton Grigioni, in Svizzera, attratto da un fiore a lui sconosciuto, dopo aver consultato le sue guide botaniche, mi disse: “questo fiore non esiste”. Non era infatti classificato nei suoi repertori della flora locale. Lo disse con l’ironia necessaria per sorridere all’imprevisto e per guardare alla realtà di quel fiore che lo sorprendeva.

Che cosa nel mio caso ha riaperto una nuova prospettiva di ricerca? L’intuizione che potesse esistere una sinonimia, tra i due vocaboli “discorso” e “argomento”. Una relazione non prevista dall’AI, in quel contesto. Sviluppando connessioni non automatiche ho potuto aprire una prospettiva nuova e fiduciosa per guardare avanti, per continuare nella mia piccola indagine.

E che cosa faceva guardare quel mio amico con simpatia al fiore sconosciuto e, secondo le guide, “inesistente”? Direi l’esperienza come incontro significativo con la realtà, nella consapevolezza che essa continuamente supera i nostri schemi interpretativi.

Vengo al tema che mi interessa. Oggi più che mai il rischio di lasciarsi definire da una misura già prestabilita è grande: la realtà, sotto tanti aspetti, assomiglia sempre più a un reality in cui la finzione di vivere in orizzonti chiusi sembra l’unico modo per sostenere l’urto del vivere.

Sono convinto che il grande compito dell’educazione scolastica è tener viva quella che in vari scritti Luigi Giussani ha chiamato la categoria della possibilità, che è una capacità di esperienza rinnovata della realtà. Il desiderio di stabilire nessi significativi è il dato originario dell’essere umano. L’uso dell’AI a scuola (dove è presente in varie forme da tempo) va ragionevolmente disciplinato. Ma la grande sfida – resa ancor più decisiva dalla colonizzazione digitale – è la domanda di compimento del desiderio di un bene più grande di qualsiasi misura predefinita e di qualsiasi risposta calcolabile sulla base di un trattamento automatico delle informazioni. L’educazione deve anzitutto tenere aperto e sostenere questo rapporto con l’altro e con l’oltre che non conosciamo e che non possediamo. Tutti in modo più o meno consapevole viviamo istante per istante questa attesa che è all’origine del nostro essere e del nostro fare.

Un’educazione scolastica superficialmente ottimistica che si affida alle tecnologie di ricerca e di conoscenza atrofizza, soprattutto nei giovani e nei giovanissimi, la categoria della possibilità. Perciò diventa esistenzialmente difficile, se non impossibile, affermare che ci siano risposte oltre e al di là di quelle stabilite dagli algoritmi che sempre più ci governano. L’apertura a un imprevisto costitutiva della natura umana può risultare allora gravemente compromessa.

Oggi più che mai, l’ottimismo ha mostrato di non sapersi reggere sulla capacità di controllo che l’uomo esercita sul reale. Ed è inevitabile. Abbiamo bisogno di un’educazione che si ricongiunga con il nostro desiderio di bene; un bene non riducibile al prodotto delle nostre prestazioni, sempre più concepite secondo logiche funzionalistiche, ma che ci spalanchi a nuove scoperte, inaspettate.

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