“Ma perché?”. È questo l’interrogativo di solito associato agli atti più cruenti e feroci capaci di scuotere l’opinione pubblica, che, seduta in poltrona o a tavola, riacquista la propria stabilità, subito dopo la pubblicità, lasciando sistematicamente irrisolta la questione.

Questa volta il motivo qualcuno lo ha già individuato nell’invidia per le attenzioni di un ragazzo, altri in uno screzio nato in classe, forse per un voto.



Ma non c’è motivo che tenga e che possa apparire adeguato a giustificare l’aggressione a mano armata, con forbici da cucina, realizzata sabato pomeriggio da due tredicenni contro una compagna di scuola, trasportata all’ospedale di Verona in eliambulanza.

“Ci vediamo al parco?”, potrebbe essere stato questo o uno analogo il messaggio con cui le tre compagne si sono date appuntamento in un giardino del loro paese, Castelbelforte. Il seguito lo abbiamo conosciuto dal racconto della donna che uscita di casa per recarsi in garage ha udito grida disperate provenire dal parco adiacente e una volta accorsa ha visto una ragazza a terra, bloccata da una coetanea che le tratteneva le spalle, mentre un’altra a cavalcioni su di lei, continuava a ferirla con delle forbici.



Le urla della donna non sono state sufficienti ad interrompere l’aggressione, è stato necessario avvicinarsi fin quasi a toccarla – così ha riferito la signora – perché la ragazza con le forbici si fermasse e scappasse via. Ma dove scappare dopo un gesto del genere? Dove nascondersi?

Le due tredicenni sono andate a casa e lì, immaginiamo sporche di sangue, hanno confessato ai genitori ciò che era accaduto, proprio come bambine che corrono a casa a cercare consolazione dopo una lite con le amiche al parco.

Ma questa volta al parco un’amica – possiamo chiamarla così? – stava per morire. Contusioni e ferite diffuse, al volto e all’addome, hanno provocato gravi perdite ematiche. Qualche minuto di ritardo nell’intervento della signora sarebbe costato la vita alla giovane vittima.



La difficoltà che si incontra nel rispondere alla domanda “Ma perché?” non ci giustifica dall’evitarla o liquidarla con le note giaculatorie sull’aggressività dei ragazzi dell’era Covid, o sulla violenza dei modelli che incontrano sui social, nei videogiochi o al Festival di Sanremo, piuttosto che nei bollettini di guerra che da oltre un anno ci accompagnano. E allora? E allora cosa accade nel pensiero di chi compie questi gesti? Sì, nel pensiero, e non, come continuiamo a dire, nella testa, perché la testa è una scatola cranica in cui trova ospitalità l’organo principale del sistema nervoso centrale presente in tutti i vertebrati, ma è il pensiero ciò che muove il soggetto.

Lavorando quotidianamente con bambini e ragazzi credo sia importante osservare che non occorre diventare adulti per imparare ad odiare o per deprezzare l’altro a sagoma ingombrante di cui liberarsi ogni qualvolta se ne avverta la necessità. L’innocenza non è un dato di natura ma è la virtù di colui che, pur potendo, decide di non nuocere ad un altro. Sì, perché è di decisione che si tratta e lo sanno bene i bambini, quando di loro iniziativa o raccogliendo il suggerimento di qualcuno, fanno pace.

Perché, potendo e sapendo di restare impunito – si domandava Simone Weil – decido di non cavare un occhio ad un essere umano? E rispondeva: “Perché lui ne soffrirebbe”. La sofferenza di un altro, sofferenza che ognuno è capace di percepire e rappresentarsi già nell’istante in cui pensa alla possibilità di alzare contro qualcuno la propria mano, è un buon motivo per non passare all’azione.

Eppure non basta poter costruire l’immagine di questa sofferenza altrui per desistere. L’empatia fallisce miseramente. E allora cosa serve per non aggredire chi mi abbia offeso? Occorre la decisione – che è la conclusione di un giudizio – di non associare la mia mano alla sofferenza di un altro, occorre rifiutare di essere la fonte del dolore di un altro. Libertà è la condizione che si associa a questa possibilità: optare per l’aggressione – motivata o immotivata che sia – o per la rinuncia all’aggressione che vorrei realizzare o che mi sono rappresentata come possibile.

Considerare i ragazzi ed i bambini, a casa come a scuola, competenti nella rinuncia ad aggredire violentemente, pur essendo capaci di farlo – come ben sanno i genitori e gli insegnanti –, è indispensabile perché anche loro possano decidere di servirsi del proprio pensiero per elaborare soluzioni diverse ai conflitti, tutti, nessuno escluso.

Concludo osservando che mi appare sempre più urgente la necessità di supportare i ragazzi nell’uscita da un presente eternizzato, che vaporizza il passato e fagocita il futuro, un presente in cui tutto si può perché non c’è un domani in cui raccogliere ciò che si è seminato. Così come, e concludo davvero, occorre con celerità abbandonare l’egemonia del soggettivismo, in cui ciò che mi pare e piace – bene diverso da ciò che davvero mi piace – fonda il regno del non-rapporto, in cui l’altro si riduce a comparsa, eliminabile non appena divenga fonte di disturbo.

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