Caro direttore,
nell’onda di commenti e riflessioni seguiti ai numerosi episodi di violenza fra giovani accaduti questa estate c’era sempre qualcosa che non mi convinceva, che non mi tornava. Guardare agli adulti o alla società, perfino cercare precise responsabilità oltre quelle di coloro che si erano macchiati di tali crimini, mi sembrava sempre riduttivo. Ma non capivo perché. Poi qualche giorno fa ho dovuto affrontare la rabbia di una madre piena di livore perché la scuola aveva osato bocciarle il figlio. Sono stati infiniti attimi di tensione in cui ho dovuto rispondere duramente alle accuse di quella donna, che mi considerava al vertice dell’organizzazione che aveva perpetrato il terribile misfatto.
Ad un certo punto la luce dei suoi occhi mi ha colpito così tanto che le ho detto, senza neanche pensarci: “Come deve essere difficile per lei essere madre in questo momento”. Questa frase ha come squarciato il muro che avevo davanti e le brutte parole sono diventate lacrime e le lacrime hanno espresso una consapevolezza nuova: “Mi dica professore, mi aiuti… come si fa a stare accanto a mio figlio adesso? Come si fa a vivere questa cosa? Io non sono capace, non so che cosa fare”.
Mi sono commosso e ho iniziato a piangere: nell’impotenza di quella donna ho visto tutta la mia impotenza. Come si fa a vivere? Come si fa a stare di fronte a quello che succede nella vita? Per me in quel momento è stato evidente come una certa capacità di vivere le vicende che ho affrontato in alcuni frangenti della vita non veniva da me, non era una mia abilità, ma un dono, al punto che non solo non avrei saputo replicarlo, ma non capivo neppure come comunicarlo a quella donna. È la consapevolezza di questa incapacità che noi non vogliamo ammettere, è la consapevolezza di questa incapacità che ci manca nel guardare certi fatti. Io non so come si sta di fronte a uno stupro, a un omicidio, a una vita che finisce “fuori carreggiata”.
E non lo so per il semplice motivo che non so come si stia di fronte al male. Chi uccide, chi stupra, chi umilia le persone, chi premedita cose tremende o agisce sotto l’impeto di un raptus, commette cose tremende, fa il male. Il male è quella roba lì e noi non sappiamo come starci di fronte. Esattamente quella madre che non sapeva come stare davanti alla bocciatura e al dolore del figlio. “Io non sono capace” è la frase da cui riparte tutto perché è la frase che ci rimette nella posizione più corretta della vita, quella della mendicanza. “Io non lo so, Signore, come si vive questa cosa, ma Tu sì, Tu lo sai, Tu puoi”.
Ma non basta. Qualche giorno fa un ragazzo mi ha raccontato tutto il dolore che vive nel non sentire nessuno come un vero amico. Mi ha citato una frase di Buzzati che avevo detto in classe e che dice: “Crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c’è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera”. Mi ha raccontato che la sera prima sentiva così tanto questa solitudine che è andato su un sito di escort, ma un sito molto particolare, dove è noto che le persone che si offrono sono tutte fake: chiedono dei soldi e poi scompaiono. Non riuscivo a capire dove volesse andare a parare. Il ragazzo mi ha raccontato che ha contattato un escort maschio e si è fatto dire con quale tenerezza lo avrebbe trattato nel caso lo avesse incontrato: ogni volta che attraverso un pagamento online trasferiva 50 euro, l’escort precisava il luogo dell’appuntamento, l’ora e le modalità delle coccole. Quando è arrivato a 250 euro, l’escort è sparito o, come si dice nello slang dei ragazzi, l’ha ghostato. Il punto è che il ragazzo sapeva benissimo che le cose sarebbero andate così, ma ha continuato. Quando gli ho chiesto perché, lui ha pianto e mi ha detto: “Lei non sa che cosa si può arrivare a fare per sentire accarezzata la propria solitudine”.
Che razza di cuore deve avere l’uomo per arrivare fino a quest’abisso! Quanto grande e impetuoso deve essere il desiderio umano per umiliarsi a tal punto! Il male non è l’unico protagonista delle vicende di quest’estate, l’altro protagonista è il desiderio. Un desiderio umiliato, maltrattato, affogato, violentato, ma inestirpabile. “Io tutto questo non lo voglio più sentire”, mi diceva una ragazza l’altra sera durante la festa del suo venticinquesimo compleanno. “E per questo provo di tutto, sto provando di tutto, sia nel sesso che nelle droghe”. Ma come, le ho detto, non lo fai per l’eccitazione, per il senso di libertà che tutto questo ti dà? E lei, comprendendo che la stavo provocando: “Lo sai benissimo, lo faccio per non sentire più il dolore”. È talmente urgente la questione del vivere che intere generazioni arrivano perfino a eliminarsi, a sabotarsi, a farsi fuori, pur di non sentire più su di sé l’incombere della domanda della vita.
Ad un cuore così radicalmente solo, Dio non poteva fare altro che rispondere con una radicale compagnia. Caro direttore, cambiano le età, cambiano le circostanze, cambiano gli eccessi, ma credo che il punto sia sempre lo stesso: c’è una ferita nel cuore che non può essere evitata, che non può essere elusa. Come diceva Claudel: “C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta”. Essere compagni di questo tormento percependone tutta la drammaticità, in fondo, è il miglior modo per dare una mano a Dio. E per guardare tutto.
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