Il recente decreto legge recante “misure urgenti in materia di reclutamento del personale scolastico” prevede che per conseguire la cosiddetta “abilitazione all’esercizio della professione docente” sia necessario:

– avere prestato servizio per almeno 360 giorni nella scuola statale;

– partecipare a un concorso per l’assunzione a tempo indeterminato nei ruoli statali;



– sostenere e superare la prova scritta di tale concorso, conseguendo un punteggio minimo (risultando almeno “idonei” ancorché non vincitori);

– conseguire 24 Cfu (crediti formativi universitari) in discipline psico-pedagogiche;

– essere nell’anno di prova in quanto vincitori del concorso straordinario o avere in essere un contratto annuale di docenza a tempo determinato in una scuola statale;



– superare una prova orale di abilitazione.

Perché parlare di “abilitazione all’esercizio della professione docente”? Quello previsto dal Dl è “solo” un percorso di assunzione e formazione del personale precario statale (lo stesso titolo del Dl, che parla di “reclutamento”, è inequivocabile).

La Costituzione italiana all’articolo 33, comma 5, prevede che vi sia “un esame di Stato … per l’abilitazione all’esercizio professionale”. Così per esercitare le professioni di avvocato, commercialista, medico, ingegnere… in Italia occorre superare un esame di Stato.



Chi legifera deve tenere distinte le norme che disciplinano l’abilitazione all’esercizio di una professione da quelle che regolano l’assunzione dei dipendenti statali (lo Stato regolatore deve cioè essere distinto dallo Stato gestore: sembra banale, ma la confusione è all’ordine del giorno, come nel caso in esame). Anche perché in Italia non esistono solo docenti dipendenti statali; anche le scuole paritarie, infatti, sono tenute a utilizzare docenti abilitati (articolo 1, legge 62/2000).

Dato poi che in Italia non esiste la possibilità di esercitare la professione docente se non in forma di lavoro subordinato (tra l’altro l’Albo professionale è stato abolito anni fa), forse è ora di smettere di parlare di “abilitazione all’esercizio della professione docente”.

La legge 107/2015 (“Buona Scuola”) per i docenti aveva realisticamente sostituito il termine “abilitazione”, ormai desueto, con quello di “specializzazione”.

Come involontariamente dimostra il recente decreto “salvaprecari”, è giunto il momento di superare la farsa dell’abilitazione per il personale docente e di prevedere i titoli di studio necessari in Italia per svolgere l’attività di insegnamento (con norme ben distinte da quelle che regolano l’assunzione/formazione dei docenti statali).

I giovani laureati in Italia oggi non sanno cosa si debba/possa fare per diventare insegnanti. I neolaureati che lavorano nelle scuole paritarie non sanno cosa si debba/possa fare per conseguire l’obbligatoria “abilitazione all’insegnamento”.

Norme come quella che il Parlamento esaminerà nei prossimi giorni non fanno altro che alimentare la precarietà che “apparentemente” vogliono combattere.