Dell’anno scolastico che prende l’avvio in questi giorni, si è parlato molto nei mesi estivi e l’attenzione sui media resta elevata. È un bene, anche se, a tratti, la discussione sui mezzi organizzativi rischia di porre in ombra il tema ben più importante del fine cui essi debbano tendere.
Il dato sicuramente positivo è che quest’anno il decisore politico ha preso nettamente posizione in favore della scuola in presenza. Non era scontato: nei due anni trascorsi, la scuola ha dovuto ogni volta piegare le sue modalità di funzionamento all’insufficienza dei trasporti, ai ritardi del servizio sanitario, all’affanno con cui il sistema sociale nel suo complesso faceva fronte all’emergenza in atto. Tutti i problemi, tutte le debolezze strutturali si sono scaricate su quello che, implicitamente, veniva considerato l’anello debole e sacrificabile: la scuola.
Non è più così: la scuola in presenza, per tutti, è diventato un “a priori”, intorno a cui il resto deve ruotare. Certo, con la previsione che – in caso di un nuovo grave allarme sanitario – vi si possa derogare: ma, insomma, il principio è chiaro. Al punto da aver generato una decisione, in altri tempi inconcepibile, come quella di obbligare di fatto tutti gli insegnanti a vaccinarsi, fino ad adottare un regime di sanzioni di inusitata durezza nei confronti degli inadempienti. Nessuno si augura che si arrivi al punto di dover attuare su larga scala gli strumenti previsti, ma già il fatto che siano stati introdotti, per decreto legge e in termini di grande nettezza, è un segnale di svolta forte, che va salutato. Non per le sanzioni in sé, ma per la volontà politica che esse manifestano: che la scuola torni ad essere un punto fermo e centrale dell’azione pubblica. “Whatever it takes”, verrebbe voglia di chiosare, pensando alla storia personale del decisore politico che più di ogni altro ha voluto questo cambio di passo.
Certo, siamo in Italia, e anche le decisioni apparentemente più nitide e chiare trovano poi il modo di ingarbugliarsi quando si passa all’attuazione. Vedi la questione del controllo dei green pass e le sottigliezze quasi bizantine sviluppate intorno alla riservatezza dei dati. Come se poi, qualunque sia la metodologia usata per rilevare il dato, la sua eventuale conseguenza – l’allontanamento del docente privo dei requisiti – non diventi di per se stesso una diffusione erga omnes del dato stesso.
Ma tutto il dibattito sul green pass e sulla privacy rischia di distrarre l’attenzione dalla questione che dovrebbe essere più rilevante: dopo due anni di scuola a singhiozzo, soprattutto nel secondo ciclo, si pensa veramente di poter rientrare in classe come se nulla fosse accaduto, all’insegna dell’heri dicebamus? Di poter riprendere lo sviluppo dei “programmi” ignorando i vuoti che nel frattempo si sono aperti nella preparazione di base? E, in seconda battuta, certo, ma non meno importante, dimenticando quel che l’esperienza della didattica a distanza ci ha fatto vedere e insieme le potenzialità che ci ha lasciato intuire?
Queste dovrebbero essere le due grandi questioni intorno a cui dovrebbe svilupparsi il dibattito nelle scuole, tutto il resto rimanendo confinato al ruolo che deve avere: di condizione organizzativa necessaria, ma non sufficiente per adempiere al mandato educativo che la società ci consegna. Tanto più che, per la prima volta, lo fa con una forza asseverativa e con strumenti giuridici di cui si era persa la memoria.
Prima questione, dunque: come andare avanti senza ignorare le grandi lacune che si sono generate e, al tempo stesso, senza inseguire il sogno impossibile di poterle colmare senza residui?
Seconda questione: come non sprecare le potenzialità della didattica a distanza per realizzare il primo obiettivo e al tempo stesso rinnovare le metodologie tradizionali?
Sul primo punto, è evidente che si impone in via preliminare una sorta di “bilancio di competenze”, cioè l’inventario dei danni. Nessuna strategia compensativa può avere successo se non parte dalla nozione il più possibile esatta di quella che è la situazione di partenza. E dunque l’apertura dell’anno dovrebbe essere in primo luogo dedicata alla ricognizione del terreno. Ma non basta. È venuto il momento in cui la forza delle circostanze dovrebbe indurre i singoli – come i consigli di classe e di dipartimento – ad una riflessione mille volte rimandata. Nel mare magnum delle Indicazioni nazionali e delle Linee guida, che includono tutto ciò che sarebbe auspicabile sapere e saper fare, nessuno si è mai preso la briga di operare una ricognizione ispirata al realismo. Non vi sono limiti superiori al sapere, ma dovrebbero esistere dei limiti inferiori compatibili con il progresso negli studi. Quali sono, insomma, i saperi fondamentali, quelli senza i quali non si può ragionevolmente andare avanti? Oppure, detto in termini diversi, qual è il livello minimo di sufficienza socialmente accettabile?
Da molti anni a questa parte, fin da quando ancora si chiamavano Programmi ministeriali, questa domanda non ha mai trovato risposta. Anzi, diciamo pure che nessuno ha ritenuto prudente porla. Tutti gli insegnanti sanno che nessuno dei loro studenti – con isolatissime eccezioni – è realmente in grado di acquisire tutte le conoscenze, competenze e abilità descritte nei documenti ufficiali. Dove viene collocato allora il discrimine, il punto di caduta? Se non si vuole adottare la postura dello struzzo, la risposta è che quel confine viene determinato empiricamente, a posteriori, in sede di scrutinio e coincide non di rado con il numero massimo di bocciature considerato compatibile con la sopravvivenza della classe nell’anno successivo. Detta così, si tratta di un’affermazione politicamente scorretta: diciamo pure che si tratta di una provocazione. Ma chiederei a ciascuno dei miei venticinque lettori di interrogarsi a porte chiuse e senza uno specchio per dare la sua personale risposta.
Il senso della provocazione è chiaro: se da una parte non si può ignorare che delle lacune si sono aperte, dall’altra non si può pensare di colmarle con l’occhio rivolto unicamente al dover essere delle Indicazioni nazionali. Ma neppure con il pragmatismo, privo di visione, del fare come se il problema non esistesse. Dopo il primo passo – quello della ricognizione – il secondo (da compiere il più possibile collegialmente) dev’essere quello della determinazione di ciò che non si può non sapere: e dunque di ciò che deve essere recuperato.
Il terzo passo deve tener conto del fatto che questa azione di recupero deve avvenire di pari passo con il procedere del lavoro del nuovo anno. Non ci si può fermare in attesa di aver finito i lavori di restauro. E quindi l’azione di ridefinizione degli obiettivi non va fatta solo per il passato, ma anche per il futuro. Occorre porsi, per il nuovo anno, traguardi che siano compatibili, sia con il tempo da dedicare al recupero sia con la maggiore fragilità delle basi su cui costruire l’ulteriore apprendimento.
Un lavoro del genere va fatto collegialmente, per due ragioni: la prima è che nessuna disciplina è una monade nel quadro generale del piano degli studi; la seconda è che le situazioni dei singoli studenti sono diverse e quindi ci saranno casi in cui gli obiettivi di recupero dovranno essere collocati a stadi diversi per una materia rispetto ad un’altra, a seconda delle situazioni individuali. Il come fare e il bilanciamento fra le molte variabili in presenza è cosa che va realisticamente lasciata ai docenti, come singoli e come componenti dei consigli di classe e di dipartimento. Se c’è un errore che da tempo immemorabile il ministero compie in questo campo è quello di dettare i metodi e i contenuti tacendo – o rimanendo fumoso – sui fini. Se mai una volta vi fu necessità assoluta di dare spazio all’autonomia didattica dei professionisti, questo è quel tempo.
Dev’essere chiaro ed esplicito il fine assegnato: recuperare il più possibile, ma solo dei saperi essenziali; personalizzare questo percorso quanto più si può; porsi per l’immediato futuro – uno o due anni almeno – traguardi compatibili con quel che è accaduto e che non può essere cancellato. Il tutto all’insegna di un sano realismo pedagogico, che non va confuso con una sorta di anno sabbatico di cancellazione dei debiti. Quanto ai mezzi, sarebbe ora di dar fiducia ai professionisti: se così non fosse, con quale coraggio ci si presenterebbe ai cittadini ammettendo di aver affidato i loro figli a persone che non vengono ritenute in grado di fare il loro lavoro?
(1 – continua)
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