Si sente molto parlare in questi ultimi mesi di una volontà governativa (in particolare della compagine leghista del Governo) di attribuire ad alcune Regioni un’autonomia rafforzata, espressamente prevista dalla Costituzione, che all’art. 116 comma 3 consente alle Regioni che vogliano acquisire maggiori poteri di avviare una trattativa con il Governo e giungere, dopo una serie di passaggi, in Parlamento per l’approvazione della legge di autonomia.
L’autonomia in questione è prevista nel contratto di governo che all’art. 19 prevede: “Sotto il profilo del regionalismo, l’impegno sarà quello di porre come questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte. Il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse. Alla maggiore autonomia dovrà infatti accompagnarsi una maggiore responsabilità sul territorio, in termini di equo soddisfacimento dei servizi a garanzia dei propri cittadini e in termini di efficienza ed efficacia dell’azione svolta. Questo percorso di rinnovamento dell’assetto istituzionale dovrà dare sempre più forza al regionalismo applicando, Regione per Regione, la logica della geometria variabile che tenga conto sia delle peculiarità e specificità delle diverse realtà territoriali sia della solidarietà nazionale, dando spazio alle energie positive ed alle spinte propulsive espresse dalle collettività locali”. Previsioni per la verità molto generiche che suonano, però, almeno per la maggioranza leghista come un impegno politico inderogabile per la tenuta del Governo.
La situazione, al momento, è assai variegata: potremmo davvero dire a “geometria variabile” secondo gli auspici dei firmatari del contratto di Governo, nel senso che (sempre che la documentazione di cui disponiamo sia veritiera) non c’è una richiesta uguale all’altra.
Veneto e Lombardia parrebbero essere accomunate (anche) dalla richiesta, oltreché di tutte le materie richiedibili (quelle oggi di competenza dello Stato), dalla rivendicazione dei “residui fiscali” (cioè dalla richiesta di trattenere sul proprio territorio gli introiti fiscali versati come tributi e imposte dai propri residenti); l’Emilia-Romagna, che parrebbe avanzare richieste meno esorbitanti quantitativamente, in realtà sul fronte della sanità avanza richieste ben più rilevanti. Sulle altre, richieste, per ora, regnano non poche nebbie: a parte le delibere di alcune di esse, non è chiaro lo stato di avanzamento dei tavoli di lavoro con il Governo.
Come evidenziato da un recente rapporto del Servizio studi del Senato della Repubblica, sette Regioni ordinarie hanno formalmente conferito al presidente l’incarico di chiedere al Governo l’avvio delle trattative per ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (Campania, Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria); tre Regioni hanno assunto iniziative preliminari (consistenti nell’approvazione di atti di indirizzo), ma senza tuttavia giungere ad una formale approvazione di un mandato (Basilicata, Calabria, Puglia), mentre soltanto due Regioni, Abruzzo e Molise, non risultano ad oggi aver intrapreso iniziative formali per l’avvio della procedura ex art. 116, terzo comma, della Costituzione.
A fronte di questo panorama parrebbe, però (il condizionale è dovuto al fatto che non vi sono documenti resi pubblici al momento) che le trattative più avanzate siano quelle con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna.
Sotto il profilo dell’istruzione le richieste delle tre Regioni sono assai diverse.
Un primo gruppo di richieste, peraltro “inutili”, è stato avanzato da tutte e tre le Regioni. Inutili perché le competenze “in più” che si avanzano sono in realtà già oggi previste dalla legislazione vigente (programmazione dell’offerta formativa; formazione professionale, apprendistato, contributi alle scuole paritarie, fondi specifici per il diritto allo studio) e dunque non si capisce il perché della richiesta.
Forse la motivazione potrebbe annidarsi nella resistenza dello Stato a consentire alle Regioni di esercitare davvero queste competenze: nonostante si tratti di poteri ormai trasferiti alle Regioni dal 2001, sia il ministero, sia gli Usr non mancano mai occasione di riappropriarsi surrettiziamente di quei poteri.
Un secondo gruppo di richieste riguarda solo Veneto e Lombardia e si tratta di competenze davvero “pesanti”: rapporto di lavoro del personale dirigente, docente, amministrativo tecnico e ausiliario; regionalizzazione del personale dell’Ufficio scolastico regionale e degli uffici d’ambito territoriale; definizione del fabbisogno di personale (di tutti i livelli) e indizione dei relativi concorsi; disciplina degli organi collegiali territoriali della scuola; valutazione del sistema scolastico (salve le competenze dell’Invalsi).
In termini politici le richieste sono roboanti, dal punto di vista tecnico molto complicate da attuare: il passaggio del personale non si fa con un tratto di penna legislativo ma richiede una serie di passaggi notevoli di cui il più complicato è quello contrattuale. I comparti contrattuali sono diversi e probabilmente anche i trattamenti economici. Inoltre si romperebbe l’unicità della contrattazione collettiva sindacale a livello nazionale. Per non parlare delle questioni della mobilità: se un docente “regionalizzato” volesse spostarsi in un’altra Regione potrebbe farlo? A quali condizioni? La Regione di cui è dipendente potrebbe negargli l’autorizzazione?
Insomma, problemi complicati da affrontare per cui servirebbero fior di tecnici per articolare un quadro funzionale e “costituzionale”.
L’ultimo gruppo riguarda solo il Veneto e per la verità è una sola competenza ma davvero “dirompente”: le finalità del sistema scolastico e la sua organizzazione in relazione al contesto socio-economico della Regione. Il che significa, in termini tecnici, che il Veneto potrebbe articolare diversamente i suoi percorsi scolastici, finanche l’attuale articolazione dei cicli.
Sono ovviamente questi due ultimi gruppi di richieste che, in caso di esito positivo delle trattative e di via libero del Parlamento, costituirebbero una novità assoluta nel panorama della scuola.
Come valutarli?
Credo che il punto di vista più adeguato e razionale per darne un giudizio sia quello dell’autonomia delle scuole. Se, come credo, questa rimane, oltre che un principio costituzionale, il vero “faro” delle riforme scolastiche, occorre capire se una regionalizzazione farebbe bene o male all’autonomia.
È chiaro che se l’operazione è solo volta a mutare il “volto” del potere (da statale a regionale) sui dirigenti e sulle scuole, si tratta di un’operazione che già in partenza è fallimentare e dannosa, perché creerebbe, in realtà, una doppia dipendenza delle scuole e dei dirigenti, dallo Stato e dalla Regione, vanificando così quel poco che è rimasto dell’autonomia.
Se, invece, lo scopo è diverso, sarebbe bene che venisse esplicitato dalle Regioni richiedenti e che se ne potesse discutere pubblicamente, alla luce, però, di ciò che serve alla scuola per migliorarsi e per migliorare il nostro Paese.
Mentre infatti il focus è su questi temi, aumenta la dispersione scolastica; aumenta il livello di povertà educativa in molte parti del Paese; le strutture scolastiche diventano sempre più fatiscenti; l’Italia scende costantemente dalle classifiche internazionali sulle competenze dei suoi studenti, diminuisce il numero di iscritti alle università, i laureati appena possono scappano dall’Italia.
Di che vogliamo parlare?