Ieri sono entrate in vigore, con il Dl del 4 febbraio 2022, le nuove norme di gestione della pandemia nelle scuole. Come è noto, esse sono improntate dall’esigenza, del tutto condivisibile e sostenuta dai dati favorevoli, di un ritorno alla normalità.

Le quarantene si riducono della metà (da 10 a 5 giorni) e la Dad viene attuata, alla scuola dell’infanzia e a quella primaria, solo al quinto caso in classe. In sostanza, per favorire la presenza fisica degli alunni, le lezioni online per tutta la classe saranno attuate raramente. Almeno così si spera.



Le difficoltà organizzative per le scuole, nonostante la semplificazione, non vengono meno e il caso delle classi suddivise, con alcuni alunni in aula e altri contemporaneamente “a distanza” (alle medie e alle superiori) rappresenta un onere per le scuole, che dovranno controllare quotidianamente quelli in classe per verificare le condizioni della loro presenza (vaccinazione completa di terza dose, oppure non avere superato i 120 giorni dalla seconda somministrazione o dalla guarigione).



Per noi presidi il cambiamento delle regole, in quanto tale, rappresenta un ulteriore aggravio di compiti, ma ci rendiamo conto della situazione generale del Paese e, in qualche misura, la maggior parte di noi accetta le incombenze che derivano dalla situazione eccezionale, per senso civico e dovere professionale. La straordinarietà dei problemi richiede sforzi proporzionali, ancorché qualcuno di noi venga messo davvero a dura prova e ne risenta personalmente, anche nel fisico.

Alcuni colleghi mi raccontano di avvertire, per la prima volta nella loro vita, disturbi mai provati (dal mal di testa e dalle difficoltà di sonno all’aumento della pressione), ma non voglio insistere su questo aspetto, perché la descrizione oggettiva di una condizione professionale potrebbe apparire diversamente come una sterile lamentazione.



Tuttavia, com’è noto, il diavolo si nasconde nei dettagli e, al di là del giudizio complessivamente favorevole che i presidi potrebbero dare delle nuove regole, sarebbe stato necessario riflettere sulla transizione dal “vecchio” regime a quello “nuovo”.

Le nuove norme, infatti, sono state applicate subito, a partire da ieri. Quindi, considerato il fatto che esse sono in vigore da sabato scorso (giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale), nel fine settimana appena trascorso, i presidi con i cosiddetti referenti Covid si sarebbero dovuti attivare per cambiare tutti i provvedimenti da loro adottati in merito alla didattica a distanza e, indirettamente, alle quarantene.

Già, le quarantene. Esse, tuttavia, derivano da disposizioni sanitarie e i presidi non possono certamente intervenire in merito. Alcuni colleghi, tuttavia, immaginando di vivere in un altro Paese, hanno modificato le loro disposizioni didattiche in funzione dei cambiamenti normativi e le hanno comunicate alle Asl, nel giorno di sabato oppure la domenica mattina. Molti dipartimenti di prevenzione, tuttavia, erano chiusi e mi risulta che neppure siano stati raggiungibili telefonicamente. Dunque, perché questa fretta nel cambiare le regole?

Viviamo in un paese che spesso richiede decenni per terminare un’opera pubblica (una scuola, un pezzo di autostrada…), ma alcune regole, che fra l’altro rimettono in discussione scelte già fatte, dovrebbero essere cambiate subito, nell’arco di un fine settimana, senza una fase transitoria.

Ecco, è proprio questo che rischia di rendere furibondi i presidi, questa costante mancanza di senso pratico e ragionevolezza che i latini evocavano con l’adagio “Est modus in rebus”.

Perché inasprire in questo modo una situazione già difficile? Credo che non vi sia al riguardo una piena consapevolezza al ministero, né dalla parte politica, né da quella amministrativa.

Leggo sulle pagine di questo giornale che, presso l’opinione pubblica, si registra una forte richiesta di calma (53% degli italiani, secondo Ipsos) e sicurezza (42%), ma non vorremmo che ciò venisse interpretato come un’esigenza di mantenimento dello status quo con le attuali inefficienze.

Nella scuola, i concorsi sono abbastanza rari, sia per i docenti, sia per il personale amministrativo. Perlopiù i docenti assumono il ruolo mediante leggi di “sanatoria”, mentre la stragrande maggioranza dei dirigenti amministrativi (provveditori) e tecnici (ispettori) assume il ruolo grazie a chiamate di natura fiduciaria.

Sabino Cassese spiega continuamente e vanamente che ciò non risponde alla Costituzione, che invece prevede i concorsi (articolo 97) per entrare nella pubblica amministrazione, salvo alcune eccezioni previste dalla legge. Purtroppo queste ultime ormai superano la regola, immaginate dunque quali siano le conseguenze di una tale mancanza di selezione meritocratica per l’attività amministrativa.

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