Quando mi viene assegnata un’ora di supplenza, in cui gli insegnanti devono sostituire qualche collega assente, solitamente cerco di aprire un varco con la classe, proponendo qualche spunto di dialogo o di riflessione, partendo da testi, filmati o da racconti personali. In una classe quinta, qualche anno fa, mi comportai così: ma i ragazzi mi parvero distanti, poco interessati a stabilire un dialogo con me. Così rinunciai ai miei buoni propositi, lasciandoli ai loro ripassi e alle loro chiacchiere, rimanendo dietro la cattedra a leggere. Fui attirato, verso la fine dell’ora, da una ragazza intenta alla lettura appassionata di un libro. Avvicinatomi, le chiesi di dare un’occhiata a ciò che stava leggendo.
Era L’ora di lezione, di Massimo Recalcati. Lessi, sul retro della copertina: “Un’ora di lezione può cambiare la vita”. Il giorno seguente lo acquistai. In quel libro, il più bello, probabilmente, di Recalcati, l’autore racconta come la sua vita mutò completamente a seguito dell’incontro con un’insegnante, una supplente di italiano, durante l’ultimo anno di frequenza di un istituto agrario della periferia milanese, alla fine degli anni Settanta. Erano gli anni del terrorismo, delle più tragiche e violente derive ideologiche del secolo scorso, della dissoluzione di ogni autorità, della droga; l’anticipo di quella degradazione culturale e morale che si sarebbe accentuata negli anni successivi. L’autore, reduce da esperienze scolastiche fallimentari, tentato dalle sirene della lotta armata, non aveva più nessuna fiducia in se stesso. Eppure bastò lo sguardo di quella giovane insegnante, la sua passione per la letteratura e per l’educazione, a generare in lui il desiderio di una vita diversa. Aveva spalancato ai suoi studenti mondi imprevedibili e pure desiderati, aveva destato in loro il fascino dell’inatteso, della meraviglia, dell’inedito.
Recalcati si diplomò con successo, si iscrisse all’università, divenne quel grande psicanalista e scrittore che conosciamo. Quella frase: “Un’ora di lezione può cambiare di vita”, la storia di Recalcati, mi tornano in mente in questi giorni di ripresa dell’anno scolastico. Quale grande responsabilità abbiamo noi insegnanti! Se avessimo un minimo di consapevolezza, un po’ di pudore, verrebbe voglia di sprofondare dalla vergogna, di arretrare davanti alla nostra incapacità. Ma subentra poi un senso di sorpresa per una scoperta improvvisa, la gratitudine per aver intuito che la nostra miseria non ci definisce, che possiamo ripartire insieme, anche dalle nostre sconfitte, con colleghi e studenti, a porci le grandi domande, che possiamo “alzare lo sguardo”, come scrive Susanna Tamaro nel suo ultimo libro dedicato alla scuola: “È proprio questa fragilità a permetterci di diventare forti, di assumere il coraggio come spinta positiva dei nostri giorni”. “Io sono pieno di una domanda a cui non so rispondere”, scriveva Pasolini.
Accorgerci della nostra miseria, avvertendo contemporaneamente il senso della grandezza di un compito che ci sovrasta da ogni parte, fa scattare la domanda sul nostro essere, sul mistero che ci ha creati e che ci crea, sulla reciprocità e sulla responsabilità nei confronti dell’altro, come scrive Martin Buber: “Divento Io dicendo Tu. Ogni vera vita è incontro”. Allora questa consapevolezza, anziché schiacciarci, ci desta il desiderio di andare oltre, di scoprire nuovi orizzonti, di chiederci, con Mario Luzi, “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, / che a un tratto ne sei pieno?/ di che?”.
La scuola, al di là di tutti i suoi limiti e della necessità improrogabile di riformarla, resta un luogo privilegiato, e in un certo senso unico, di incontro e di crescita tra generazioni diverse.