I cambiamenti sono vertiginosi e continui e le nozioni non bastano più per acquisire le competenze opportune: ci vuole creatività, capacità di produrre proposte e anche di correggersi in corso d’opera, così come la disponibilità a lavorare in gruppo, insieme ad altre persone. Il mondo del lavoro corre ma le aziende e con loro la scuola e l’università non sempre mostrano di tenere il passo.



Nell’incontro di oggi al Meeting dal titolo Scuola e università: risorse umane o uomini per il nuovo lavoro? si analizzerà come preparare i ragazzi a queste nuove esigenze mantenendo viva nella loro preparazione la domanda di senso necessaria per crescere come persone e individui pronti ad affrontare anche un impiego. Tra i relatori ci sarà Roberto Ricci, presidente INVALSI, Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione.



Il titolo dell’incontro di oggi è chiaramente riferito non solo a ciò che i nostri studenti sanno, ma anche a ciò che essi “sono”. Perché la sfera dei valori e del senso – la “ricerca dell’essenziale” – non si può espungere dalla conoscenza?

La conoscenza è la trama di cui si costituisce il tessuto dei valori e delle prospettive di senso. Ritengo che il punto non sia che non ci serve la conoscenza in sé e per sé, ma che sia necessario ripensarla proprio per favorire lo sviluppo di competenze più ampie e oggi oltremodo importanti. Non si può più eludere la questione che esistono tanti tipi di conoscenza, probabilmente con gradi diversi di complessità e di difficoltà. La sfida è promuovere ricerca e prassi in grado di trovare percorsi adeguati a tutti e a tutte.



Il tema proposto affaccia l’ipotesi che il sistema formativo, scuola e università (che presentano caratteristiche e vocazioni diversissime), non sia all’altezza del compito che la “realtà”, ovvero i mutamenti del lavoro, oggi richiede. È così? Perché?

Io non credo che il nostro sistema formativo non sia all’altezza di affrontare sfide che per dimensione e velocità non hanno precedenti. Io penso che serva una riflessione profonda che aiuti a rivisitare gli obiettivi e i metodi sin qui usati. Limitando l’attenzione alla scuola, il campo nel quale mi sento più legittimato a proporre qualche riflessione, serve il coraggio di dire che non possiamo limitarci a piccoli aggiustamenti di un modello formativo che rispondeva a una società diversa. Serve una riflessione, profonda e aperta, soprattutto culturale e pedagogica, che ridisegni gli obiettivi e i metodi di una scuola, a partire dallo spazio 0-6, che si ponga l’obiettivo di portare tutti e tutte a un certo livello di competenze di base. È necessario vedere l’inclusione come una medaglia che, da un lato, si deve curare di non lasciare indietro nessuno, ma dall’altro consenta di coltivare l’eccellenza che passa anche attraverso conoscenze, abilità e competenze complesse, difficili e sfidanti.

Il nostro problema è un deficit di modernizzazione? di strumenti? di metodo? o di cos’altro?

È necessario un cambio culturale che consenta al sistema di chiarire qual è il disegno educativo che si propone, avendo ben chiaro che al fianco delle intenzioni servono anche i risultati, misurabili e verificabili.

L’ultimo rapporto Invalsi ci dice che al termine del primo ciclo il divario Nord-Sud in matematica è già molto accentuato. Da che cosa dipende questa situazione e con quali scelte “forti” (o politiche, sistemiche) va affrontato?

Il divario tra i territori affligge la storia italiana da secoli e, per quante risorse ed energie si investano, sembra sempre che il suo superamento ci sfugga. In generale, quando si continuano ad avere risultati poco soddisfacenti, credo sia necessario porsi l’interrogativo su cosa ci sfugga. Io penso che la frontiera della ricerca, di tutti, nessuno escluso, debba fare un passo avanti. È fuori di dubbio che il contesto socio-economico-culturale sfavorisca il Mezzogiorno. Tuttavia, solo una parte dei divari trovano una spiegazione nell’ambiente, nelle cosiddette variabili esogene al sistema formativo. Serve la volontà, l’intelligenza e il coraggio di concentrarsi su quella parte dei divari che ha un’origine diversa. Io credo che andando in questa direzione si possa spezzare il circolo negativo che vede il Sud del Paese in condizione di permanente svantaggio.

Lei rappresenta una sorta di “memoria viva” dell’Invalsi. Alla luce dell’evoluzione storica dei risultati, quali dati emergono dalla sua personale lettura delle prove che si sentirebbe di proporre al confronto di stamane?

Io vorrei proporre il tema della ricerca di soluzioni sostenibili, fatte non solo di intenzioni, ma anche di risultati verificabili, in grado di garantire a tutti e a ciascuno competenze di base solide e adeguate. La tradizione è importantissima e ci può guidare anche per affrontare le sfide che ci attendono e nelle quali siamo già immersi. Ma senza chiarire quali sono i traguardi che ci poniamo, rendendoli trasparenti e riscontrabili, proponendo soluzioni attuabili con milioni di giovani, non credo che si andrà oltre le buone intenzioni. L’equità e l’inclusione rimangono alla metà del guado se ci si focalizza solo sui processi e si trascurano i risultati.

Cosa proporrebbe invece all’attenzione di chi governa?

Cambia la prospettiva e la dimensione del fenomeno, ma la risposta non è molto differente dalla precedente. Io penso che anche (e non solo) attraverso i dati vada verificato cosa funziona e cosa invece necessita di maggiori approfondimenti, evidenziando i veri problemi e non solo quelli presenti a tutti in funzione del buon senso. Certamente quest’ultimo aiuta, ma non può essere alla base delle politiche e delle richieste del sistema alla politica. Io credo nella necessità di costruire un circolo virtuoso in cui le richieste del sistema alla politica siano elevate, ma che puntino al vero interesse della società tutta, non solo di una sua parte. Ancora una volta, la promozione di livelli di apprendimento comuni, per quanto largamente intesi, deve essere perseguita come un servizio essenziale da garantire alla collettività, senza trascurare la dimensione della responsabilità di sistema, di scuola e individuale, studenti e studentesse inclusi.

Ci sono sistemi scolastici dai quali dovremmo imparare per quanto riguarda il cosiddetto “profilo in uscita” dei nostri studenti? Perché?

Tutti i Paesi avanzati stanno cercando di affrontare, chi più chi meno, i problemi che affliggono il sistema formativo italiano. Tuttavia, io credo che ci siano alcuni modelli molto interessanti come quelli dei Paesi del Nord Europa (Scandinavia, Paesi Bassi, ecc.) dove in varie forme si riesce a conciliare la dimensione di scuola e la misurazione standardizzata, compresa la Finlandia che, al contrario di quanto si dice, ha nei fatti una misura esterna molto rigorosa, ossia un esame di Stato conclusivo totalmente esternalizzato e centralizzato, correzione e attribuzione del voto finali inclusi. In questi Paesi si è riusciti a conciliare una formazione generale, cosiddetta accademica, di qualità e un’istruzione tecnico-professionale di elevato livello che comprende anche il segmento terziario. Infatti, non bisogna dimenticare che l’elevata quota di popolazione con un titolo di studio terziario in questi Paesi si spiega anche attraverso la filiera tecnico-professionale che consente di giungere a titoli di studio terziari.

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