Negli ultimi tempi in diversi istituti scolastici si è deciso di impedire l’uso dei cellulari e in alcuni casi la motivazione ha fatto riferimento alla necessità di riprendere contatto con la realtà. Gli studenti si trovano infatti spesso a trascorrere il tempo dell’intervallo consultando il loro device invece di scambiare chiacchiere con compagni e insegnanti.
Senza entrare nel dibattito tra chi sostiene che sia utile proibire e chi sostiene invece che in campo educativo la proibizione non sia mai la scelta migliore, si vuole in questa sede offrire qualche riflessione sul rapporto tra virtuale e reale, consapevoli della forte attrattiva esercitata dal virtuale e non solo nei confronti dei giovani.
In un recente numero della Lettura del Corriere della Sera all’interno di un dialogo tra Eggers e Baricco dal titolo Il grandissimo fratello lo scrittore italiano così si esprime: “arriverà il giorno in cui il mondo reale sarà talmente inospitale e il metaverso così confortevole che ci scivoleremo dentro con facilità. Quindi, come far sì che la rivoluzione digitale non si trasformi in un disastro e rimanga quel processo che cercava di costruire un essere umano più libero? L’unica mia risposta è che bisogna impedire al mondo reale, alle esperienze e ai corpi fisici, di perdere speranza, forza e bellezza. Da qui la necessità di un umanesimo contemporaneo”.
Come potremmo caratterizzare questo umanesimo contemporaneo?
Alcune delle sue connotazioni sono già contenute nelle parole di Baricco. Dovrebbe favorire la crescita di un essere umano libero, capace di interagire con la realtà nella sua fisicità, di appassionarsi alla presenza reale dell’altro, all’interazione con gli esseri umani in carne ed ossa.
Un umanesimo che valorizzi il dialogo con chi si incontra quotidianamente, la volontà di confrontarsi con le sollecitazioni e le sfide che la realtà pone, anche quando sono difficili e chiedono di trovare soluzioni nuove.
La scuola ha una grande responsabilità nella promozione di questo umanesimo, come ricorda ancora Baricco: “Ho chiamato l’attuale civiltà The Game proprio perché ne colgo la matrice nei videogiochi, che sono sempre in movimento, sorprendenti. Se un’intera civiltà è basata su tali dinamiche mentali, non puoi pensare di suscitare l’entusiasmo, tanto più quello dei giovani, con un pensiero intelligente ma fermo. E dunque sono d’accordo con Eggers, dobbiamo intervenire sulla scuola. […] Ogni ragazzo che non partecipa alla storia è il fallimento di un sistema, delle famiglie, ma innanzitutto della scuola. È lì che dobbiamo tornare a pensare in maniera brillante e non statica, che sappia dialogare con il desiderio”.
Ma quando un pensiero non è fermo? Quando non vive di ripetizioni e di assunzioni acritiche, quando l’io asseconda il desiderio che gli chiede di andare oltre, di domandare in un dialogo serrato e critico con il passato, veicolato dalle diverse discipline di studio.
Quando vive il sapere del passato, la cultura, non come un insieme di teorie astratte generate da accademici più o meno acuti, ma come ipotesi capaci di dar forma alle domande dell’oggi e di appassionare a una ricerca che sappia essere generatrice di senso.
L’istruzione a scuola può affascinare solo se vissuta come l’insieme delle creatività degli uomini che ci hanno preceduto. Le loro scoperte, i loro pensieri sono serviti a rendere più umano e più comprensibile il mondo che ci circonda. Le grandi creazioni dell’arte, della poesia, della musica, della scienza, della matematica non sono ferme se sanno dialogare con il desiderio.
Il desiderio di imparare, di essere protagonisti della propria vita, di partecipare alla storia, come ricorda Baricco, ha come naturale interlocutore il mondo della scuola, di docenti appassionati, che siano testimoni di questo lavorio innanzitutto nella loro persona e che quindi siano in grado di trascinare gli studenti in questa esperienza.
L’educazione non può avere come fine se non la generazione di persone libere; questa, credo, dovrebbe essere l’espressione più matura dell’umanesimo contemporaneo. Un umanesimo lontano dall’omologazione, dalla ripetizione di slogan acritici, capace invece di spirito critico e originale.
Occorre che la scuola abbia il coraggio di lasciarsi interrogare dalla rivoluzione antropologica di cui si parla da tempo.
È necessario mettere al centro della sua avventura educativa la domanda sull’uomo, una domanda antica, che oggi però è chiamata a confrontarsi anche con il virtuale, il metaverso.
Già in un’altra occasione su queste pagine si è detto dell’opportunità di riflettere su quale visione antropologia permea le nostre scuole.
Baricco, all’interno dello stesso dialogo, di cui si è detto sopra, afferma: “Bisogna riuscire a creare un movimento contrario alla paura che sta prendendo le nostre coscienze, il nostro tempo, le nostre menti. […] il contrario non è il coraggio, ma la voglia. In questo momento la paura sta vincendo sui desideri. E quindi la cosa che noi possiamo fare è difenderli, moltiplicarli, svegliarli, pronunciarli”.
Si tratta di un invito che la scuola non può non fare suo.
Alla paura che spesso vediamo sul volto dei nostri ragazzi e che si traduce in tante fragilità: dall’autolesionismo ai disturbi alimentari, ma anche nell’ansia per la fatica a soddisfare richieste di prestazione, non si risponde con un invito moralista a farsi coraggio, ma con l’ascolto dei desideri.
La difesa dei desideri nasce dall’accoglienza di un io ferito, insoddisfatto, che si confronta, senza paura, con i grandi del passato, che hanno vissuto la stessa insoddisfazione.
La scuola è chiamata a moltiplicare questi desideri chiedendo un continuo e fecondo confronto tra le domande dell’oggi e le risposte del passato, non per assumerle acriticamente, ma per alimentarle attraverso l’esercizio di un vero spirito critico.
Gli adulti che sono a scuola hanno il compito di svegliare i desideri attraverso un’opera educativa che interpelli costantemente l’io e di offrire agli studenti gli strumenti culturali per poterli nominare.
L’interlocuzione con i desideri è educazione alla libertà, che non si accontenta del pensiero fermo, della fissità, ma che al contrario vive del progressivo entrare in una realtà fisica fatta di esperienze concrete e di fisicità di corpi.
Questa inesauribilità del desiderio, che non consente di stare fermi, somiglia molto alla descrizione del comportamento del lupo tratteggiata da Cognetti nel suo libro La felicità del lupo: “…non si capiva esattamente perché si spostasse, l’origine della sua irrequietezza. Arrivava in una valle, magari trovava abbondanza di selvaggina, eppure qualcosa gli impediva di diventare stanziale, e a un certo punto lasciava lì tutto quel ben di dio e se ne andava a cercare la felicità da un’altra parte. Sempre per nuovi boschi, sempre oltre il prossimo crinale, dietro all’odore di una femmina o all’ululato di un branco o a nulla di così evidente, portandosi via il canto di un mondo più giovane, come scriveva Jack London”.
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