Il professor Michele Prandi, per descrivere la differenza fra l’insegnamento tradizionale della grammatica e i metodi della linguistica contemporanea, usa una immagine molto efficace. La grammatica tradizionale tratta la lingua come se fosse un insieme di pezzi di ricambio di una bicicletta: insegna a catalogare i tipi di sellino, i diversi manubri, le varie possibilità di telaio, le catene. Mai si riesce a capire come la bicicletta è montata, e soprattutto come fa a funzionare con la forza impressa dal piede al pedale e da questo alla catena e alle ruote.



Questa immagine mi è sempre sembrata geniale. A scuola impariamo tutti i tipi di verbo (transitivo intransitivo pronominale ausiliare servile fraseologico copulativo) di locuzione, di complemento, di proposizione (sottocategorie estenuanti, una vera dissezione) in quella che il compiantissimo professor Luca Serianni chiamava un’operazione “catastale”. Pensiamo ai complementi: una lista indigeribile che si allunga a ogni nuova edizione del manuale, costringendo in caselle il significato vario e multiforme, finendo per mescolare costrutti della lingua (per esempio “avere bisogno di qualcosa”) con categorie del pensiero come il tempo, lo spazio e la causalità.



La catalogazione come metodo incasellante non può rendere ragione di uno strumento comunicativo duttile come la lingua umana. Oltre tutto spaventa: pensiamo a una stringa come “subordinata concessiva implicita di secondo grado” con quattro concetti diversi uno sopra l’altro.

Dobbiamo dedurne forse che non è più necessario sapere che cosa è e come si comporta un verbo? O distinguere un aggettivo da un pronome, la causa dal fine? O a che cosa corrisponde una subordinata concessiva implicita di secondo grado? Evidentemente gli oggetti grammaticali sono sempre la materia prima di un’indagine sul funzionamento della lingua, ma appunto quello che dovrebbe cambiare è il fine: capire “come funziona”. Questo farebbe cambiare anche il modo di individuare gli oggetti: non le parti (i manubri, i sellini), ma il tutto per come viene montato (i legami sintattici che uniscono le parole fra di loro: la concordanza, la reggenza) e per come si pone al servizio del significato (Riempio un vaso d’olio è diverso da Riempio un vaso di ferro).



Il “sistema” in sé è semplice e regolare: si basa su alcune leggi di funzionamento (alcune delle quali universali), le parole si aggregano come in un piccolo cosmo in cui tutto si tiene: “È una cosa meravigliosa, perché pensiamo: ‘Ma guarda un po’ che roba, guarda un po’ come è fatta bene’, ‘Quanto è solida, ingegnosa, acuta!’. Solo il fatto di sapere che esistono diversi tipi di parole e che bisogna conoscerli per definirne l’utilizzo e i possibili abbinamenti è una cosa esaltante. Penso che non ci sia niente di più bello, per esempio, del concetto base della lingua, e cioè che esistono i sostantivi e i verbi. Con questo avete in mano il cuore di qualunque enunciato. Stupendo vero? I sostantivi, i verbi” (Muriel Barbery). Invece l’impressione che ne ha lo studente è di qualcosa di complicato, con una casistica infinita, piena di varianti, in cui non c’è una logica. Non muove la ragionevolezza.

Uno dei danni della grammatica tradizionale è che non promuove il pensiero astratto. Presentando per lo più casistiche (vedi appunto le tipologie di verbo, ma gli esempi sarebbero moltissimi) non consente il passaggio dal caso concreto alla forma. Si interessa delle differenze linguistiche e non delle somiglianze funzionali. Attraverso categorie formali si riconoscerebbe l’identità di formulazioni linguistiche diverse come (Il re) regna / (Il re Carlo III) regna / (Il re Carlo III d’Inghilterra) regna / (Il re Carlo III d’Inghilterra, salito al trono dopo la morte della madre) regna; cioè che la lingua è fatta “a scatole” (secondo l’immagine proposta da Andrea Moro al Meeting di Rimini del 2022).

Noi invece lì a sezionare i “pezzi”: soggetto, apposizione, complemento di specificazione, dipendente relativa, senza vedere che la realizzazione linguistica può variare, ma la “forma” rimane identica. È lo stesso handicap per cui non si capisce che Ceno e vengo dopo, Vengo dopo cena e Vengo dopo aver cenato esprimono la stessa funzione: invece no, si imparano l’avverbio in prima media, il complemento in seconda e la dipendente in terza!

E questo scollamento penalizza proprio il passaggio dall’osservazione del caso concreto al pensiero astratto. Il quale non è qualcosa di elitario per ragazzi del liceo classico, ma è la via attraverso la quale anche ragazzi che hanno disturbi di apprendimento possono arrivare alla consapevolezza, persino nella scuola primaria (vedere per credere! Su questo ho scritto qualcosa).

Un altro terribile handicap della grammatica tradizionale è quello di voler ricondurre le definizioni dei diversi oggetti grammaticali ai soli casi “prototipici” (nel senso della teoria del prototipo di Lakoff), quelli cioè che si riconoscono in modo immediato. Invece in ogni categoria ci sono casi più evidenti (es. i nomi di persone animali e cose, le preposizioni semplici, i soggetti-agente-tema) e casi più lontani dal prototipo che richiedono categorie formali per essere riconosciuti (es. i nomi deverbali, le cosiddette improprie, o i soggetti postverbali o non agenti). Se non si lavora mai sul criterio formale e ci si affida a criteri immediati basati sul significato, sarà quasi impossibile capire i casi non prototipici. Anche questo non è qualcosa di adatto a liceali acculturati: la frazione rispetto alla fetta di torta è già una “forma astratta”, come pure il concetto di genere grammaticale rispetto alla sedia e al tavolo. E Dio solo sa quanto bisogno c’è che si insegni a far funzionare il pensiero, e non solo ad avere abilità e competenze di vario tipo.

Insomma, la via ci sarebbe, e non è complicata. Da molti anni si sperimentano modi alternativi anche all’interno della Bottega dell’Insegnare dell’associazione Diesse, che ha prodotto pubblicazioni e materiali didattici. Resta il dubbio che, pur essendo molto più ragionevole imparare secondo il funzionamento che non secondo le classificazioni, lo studente – non solo l’insegnante – avrà una certa resistenza a cambiare le sue routines, come dicevo nel mio precedente articolo, e quindi sacrificherà il semplice-gratificante che non conosce, preferendo il complicato-frustrante che conosce.

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