Nessun tempo è esente dal cambiamento, ma esso talvolta si impone con la forza e talaltra si insinua, quasi inosservato. Può essere un Leviatano o un underdog. Nel mondo occidentale, negli ultimi cinquant’anni, esso si è attuato gradualmente, senza grandi traumi e sostanzialmente in maniera pacifica. Ma adesso i motori della storia si sono potentemente riattivati. Essi scompigliano gli equilibri geopolitici consolidati e innescano tensioni destinate a trasformare le strutture profonde del nostro vivere sociale, mettendo in gioco la libertà e la prosperità dell’Occidente unitamente alla pace stessa. Quindi i cambiamenti, particolarmente se tumultuosi, dovrebbero essere accompagnati da riforme adeguate, capaci di contenerli, come gli argini consolidati che reggono i torrenti in piena. Talvolta si tratta di concepire disegni politici audaci, atti a guidare l’impeto del nuovo che germoglia tra le spaccature del terreno e porre in essere strategie politiche che promuovano forme d’identità. In altri termini, oggi occorre sviluppare una forte soggettività europea, capace di interloquire con le grandi potenze attuali e con quelle che si candidano a esserlo. Che spazio ha la scuola in questo nuovo mondo incipiente?
Le istituzioni scolastiche, fin dalla loro nascita, interagiscono con quelle statali. Non vi può essere, da parte delle scuole, un atteggiamento di neutralità verso di esse, perché i processi di socializzazione degli alunni, particolarmente intensi nei primi anni della vita scolastica, sono intrisi dei valori che informano le costituzioni formali e materiali dei Paesi che promuovono l’istruzione. La socializzazione, infatti, non si realizza nella mera dimensione amicale che i bambini e gli adolescenti costruiscono tra di loro negli anni scolastici, ma comporta per essi la progressiva acquisizione, culturale e comportamentale, della condizione di cittadinanza. E l’acquisizione dei valori. I nostri, quelli dell’Occidente, sono i valori della persona, i quali sono accolti anche da altre civiltà, ma in maniera profondamente diversa dalla nostra, che ha radici cristiane. Talvolta sono disconosciuti, come per le donne in Iran o Afghanistan. La socializzazione, dunque, avviene vuoi nel contesto della nazione di appartenenza, vuoi all’interno di una qualsiasi comunità particolare.
È evidente come una tale educazione, che fino ad alcuni anni fa rispondeva a una logica disciplinaristica e si nominava educazione civica, abbia avuto a che fare direttamente con la vita sociale, al punto che al suo declino come insegnamento ha corrisposto statisticamente un effetto negativo, seppur non deterministico, di crescita della devianza e delle patologie dei comportamenti giovanili. Chiunque abbia visto nell’azione educativa alla cittadinanza un comportamento manipolativo non riesce a cogliere quella che è una delle ragioni storiche di nascita dei sistemi scolastici. L’istruzione – scrive il sociologo americano Steven Brint – è “uno dei maggiori interessi dello Stato nazionale, al fine di formare una forza lavoro qualificata e una cittadinanza disciplinata”. Forse può non piacere una tale franchezza, ma è esattamente per queste ragioni che la scuola, in questo momento storico, riveste una assoluta centralità. Tale centralità, tuttavia, dovrebbe emergere dalle strategie di riforma. Ma non la si riscontra.
Può darsi che le dinamiche di cambiamento perseguano una strategia di piccoli passi, di aggiustamenti con il cacciavite, come suggeriva un ministro di alcuni anni fa. Forse vanno in tal senso l’istituzione dei ruoli di tutor e di orientatore o la promozione della educazione affettiva. Si tratta di interventi condivisibili nello spirito, come del resto quello della riduzione di un anno di scuola per la filiera tecnica e professionale (compensato dalla frequenza biennale degli ITS) o quello recentissimo, promosso in questi giorni, che affida ai documenti conclusivi del percorso di studi superiore il compito di menzionare anche i risultati dei test Invalsi (D.L. 19/2024, art. 14), certamente più oggettivi di quelli dell’esame di Stato. Tuttavia, una tale strategia (ammesso che questa sia la scelta) non si realizzerà in maniera piana, ma richiederà molta determinazione: sono poche le scuole tecniche e professionali che hanno aderito alla sperimentazione dei quattro anni. Molto meno accettabili sono i concorsi riservati (che compiacciono i sindacati) per dirigenti scolastici, destinati a quei professori che avevano adito il giudice contro i risultati negativi delle loro precedenti prove e che adesso, da bocciati, si vedono premiati con una imminente e prevedibile sanatoria. Altrettanto scandalosi – come sembra – saranno quelli riservati per dirigenti tecnici (ispettori). In questo caso i beneficiari di un tale canale concorsuale saranno gli attuali dirigenti scolastici e docenti che sono stati distaccati presso gli Uffici scolastici regionali con il compito di svolgere un ruolo ispettivo, persone scelte con ampia discrezionalità da un qualche direttore regionale. Roba che dovrebbe accendere le dispute dei filologi sul valore semantico del termine “merito”, giustapposto alla tradizionale denominazione ministeriale.
Insomma, non è chiaro quale sia la direzione di navigazione del transatlantico di Viale Trastevere, le cui dimensioni non gli consentiranno di schivare gli scogli di quei partiti che avrebbero voluto abolire l’Invalsi, dei sindacati che metodicamente si oppongono a qualsiasi riforma, dei docenti che danno alla scuola quello che possono e talvolta, immersi in altre attività o vite lavorative, non possono neppure dare quello che potrebbero.
Recentemente abbiamo tenuto, nello scorso febbraio, a Firenze, un convegno sui decreti delegati, a mezzo secolo dalla loro emanazione nel 1974. Ormai è chiaro che essi non funzionano. È sempre più difficile trovare candidati per i vari ruoli del consiglio di istituto (che siano insegnanti o genitori o alunni) e i collegi dei docenti, celebrati adesso online, registrano una sempre minore attenzione e partecipazione. In molti consigli di classe manca la rappresentanza dei genitori. Ad eccezione di poche scuole (alcune primarie e qualche liceo), questa è la situazione generale: una governance inefficace. Dopo di che, possiamo cucire qualche toppa sulla mancanza di una educazione affettiva o sul disorientamento degli alunni, che causa gli strappi dolorosi della dispersione scolastica; rammendi importanti. Ma senza una governance e una reale autonomia delle scuole è inutile concentrarsi sulla fenomenica del sistema scolastico. La sostanza della vita scolastica, ovvero ciò che sta sotto (sub stat) e regge il sistema, è inefficace e priva di governance. Non è necessario ricorrere ad Aristotele per vedere la pochezza della doxa di alcuni cambiamenti. Occorre una metafisica concreta, direbbe Cacciari, che ci restituisca il valore dell’essente “scuola”. In altri termini: è il momento del coraggio.
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