Archiviate ormai le attività scolastiche, fra verifiche, ricorsi, recuperi estivi, rendicontazioni eccetera, sulle spalle dei docenti è arrivato, senza scampo e senza appello, il colpo finale degli esiti delle prove Invalsi. Ormai da alcuni anni tale comunicazione ha assunto le tinte fosche di qualsiasi altro appassionante argomento catastrofico, di cui vanverare con piglio accorato, retorico e velato di sdegno contro le nuove generazioni che “ai miei tempi figuriamoci!”, ma anche contro i docenti che “ci vorrebbe ancora la cattedra sulla pedana, altro che!”, così come contro il sistema italiano che “imparassimo dai finlandesi!” e via di questo passo.



Sull’Invalsi, fin dalla sua nascita, polemiche ce ne sono sempre state, ma soprattutto di colore politico, ideologico, sicuramente strumentali. Tanti docenti, invece, hanno sempre giudicato positivamente la possibilità di utilizzare uno strumento simile contro la crisi serpeggiante del processo di insegnamento-apprendimento, del sistema valutativo e della nostra istituzione scolastica. Nulla da obiettare, anzi: il problema è che, ad oggi, lo scopo non ha ancora trovato metodi e strumenti adeguati all’oggetto di indagine, o meglio quanto viene rilevato non corrisponde a ciò che la comunicazione mediatica diffonde.



La prima domanda cruciale è: cosa misurano queste indagini nazionali? Da qualche anno ormai si parla di competenze fondamentali in italiano, matematica ed inglese. Sicuramente la parola non è nuova, poiché da tempo i docenti progettano e programmano “per competenze” (anche se tutto da dimostrare è l’effettivo svolgersi nelle aule di quanto scritto sulla carta).

Altrettanto sicuramente, sappiamo che le dimensioni caratterizzanti la competenza sono quella cognitiva, attiva, metacognitiva, emotiva, sociale, dinamica, situata. Ecco, l’Invalsi offre qualche informazione soltanto sulle prime due (quindi, abilità e conoscenze), perché il format della prova non può contemplare un contesto complesso come quello di competenza, che certo non prevede un’unica somministrazione o l’assenza di variabili nei quesiti, necessari e corrispondenti alle varie realtà in cui la prova si situa, o ancora la mancanza di domande aperte.



Sicuramente i dati sono comunque utili a mostrare che ci sono delle invarianti costanti: da un lato, la scuola secondaria è il settore maggiormente in difficoltà ed il livello di adeguatezza rimane basso (parlare di comprensione del testo tout court è già una non comprensione dei livelli Invalsi, ma i titoli han bisogno di poco spazio…); dall’altro, permane una forbice notevole di disuguaglianze (Nord-Sud, maschi-femmine, autoctoni-migranti…).

La seconda domanda cruciale riguarda le cause della negatività di tali dati. La prova Invalsi non opera alcuna misurazione della qualità dei processi formativi e non può garantire una corretta analisi dell’impatto che la scuola ha sul rendimento degli studenti (come invece possono fare le ricerche sperimentali sulle scelte educative e didattiche), causando una percezione erratamente drammatica della responsabilità del sistema scolastico, che viene equiparato ad altre variabili, oggettive ed indipendenti, su cui dovremmo invece focalizzarci, soprattutto il retroterra culturale, sociale ed economico degli studenti, drasticamente decisivo nella scuola secondaria.

Questi fattori sono fondamentali anche relativamente agli obiettivi educativi specifici dei vari istituti e dei docenti che operano sul campo e sanno modulare l’offerta formativa rispetto alle necessità contestuali specifiche; per contro, negli ultimi anni i risultati Invalsi vengono assunti come riferimento centrale del curricolo e delle progettazioni didattiche, in una dimensione falsamente oggettiva e omologante. Tanto più che alle maglie della prova sfuggono gli elementi di individualizzazione necessari a quella fetta di popolazione scolastica segnata da piani di apprendimento specifici (Dsa, alunni con background migratorio…).

L’ultima grande domanda è: quali misure sono state prese rispetto agli esiti Invalsi – che, tra l’altro, se letti diacronicamente insieme con quelli Ocse-Iea, evidenziano sia un livello di alfabetizzazione migliore nelle giovani generazioni rispetto a quelle più anziane, sia l’assenza di significativi avanzamenti o drastici tracolli? Nessuna. Intanto, alcuni semplici accorgimenti sarebbero utili: una comunicazione diversa, più approfondita e diretta, affidata ai dirigenti (e non ai quotidiani) con l’obbligo di formare e rendicontare su tutta la complessità del quadro: poi, una maggiore trasparenza e chiarezza sugli obiettivi, che permetterebbe di analizzare gli esiti con maggiore serenità; infine, una tempistica diversa, che permetta ai docenti di studiare ed utilizzare i dati in modo proficuo ed immediato (come per ogni verifica in classe). Ma così siamo ancora ad aspetti che non toccano il cuore della questione, ovvero la frequente mancanza di una didattica adeguata alle fragilità dei nostri ragazzi.

Non si tratta di moltiplicare le letture antologiche con i questionari stile Invalsi o aumentare il numero degli esercizi di matematica ed inglese (quanti inutili volumetti editi, quante piattaforme dedicate, quante simulazioni, addirittura funzioni strumentali ed équipe finalizzate allo studio delle prove e dei quesiti!) o incrementare l’utilizzo delle Tic. Questo già provano a farlo in tanti, ma evidentemente non serve, come dimostra un dato che emerge dal documento di Invalsi (certo bisogna leggerlo…), ovvero la permanenza dello scarto dallo standard previsto per gli alunni ripetenti. Questo indica che abbiamo un enorme problema sulla didattica, se la ripetenza non garantisce un miglioramento nelle abilità testate dalla prova. Ovviamente possiamo addurre anche altri fattori causali, che rimandano a dimensioni personali e di contesto socio-culturale, ma non possiamo non interrogarci sulla nostra azione in aula. Che fare?

Iniziamo a ribaltare la prospettiva e chiediamoci non cosa fare in classe quest’anno, ma dove vogliamo arrivare; si tratta cioè di partire dalla fine, dalla nostra ottima ma bistrattata normativa (obiettivi di apprendimento, traguardi, line guida) e costruire i percorsi necessari per quella meta. Siamo sicuri che quello che facciamo in aula abbia proprio quegli obiettivi o non piuttosto altro? Siamo sicuri che i nostri libri di testo (omologati e standardizzati) forniscano strumenti adeguati? Siamo sicuri che i contenuti che proponiamo abbiano valore assoluto ed intrinseco? Siamo sicuri che le nostre modalità di valutazione siano formative, cioè descrivano chiaramente all’alunno metodi e mezzi per migliorare?

Non sono domande retoriche, ma il cuore della nostra progettazione che troppo spesso diamo per scontato, affidandoci soltanto agli oggetti di studio, suddivisi per annualità, e tralasciando il percorso strumentale necessario per maturare competenze. Serve rivedere non il cosa, ma il come. E serve farlo anche rispetto alla proposta della prova in classe: i ragazzi si sentono coinvolti? Ne vedono l’utilità? Oppure siccome non c’è voto, non danno il massimo? E se danno il massimo soltanto per il voto, non sarà il caso di rivedere il nostro sistema valutativo? Insomma, da fare e pensare ne abbiamo.

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