Come ormai di consueto, i giornali hanno diffuso la notizia con un titolo allarmante: “Uno studente su due non capisce quello che legge”. Ma dopo essersi limitati a toccare l’emozione, l’argomento è stato abbandonato, quando è certamente più importante del Covid-19 e del riscaldamento climatico.
I test Invalsi sono test standardizzati che vengono fatti svolgere agli studenti su scala nazionale in diverse fasi del loro percorso scolastico, per individuarne il livello di conoscenze e competenze.
Se uno studente su due non è più in grado di capire quello che legge, significa che in Italia è stata bruciata una generazione, mentre ci si appresta a bruciarne un’altra. Come potrà frequentare l’università uno studente con queste capacità azzerate? Non solo. C’è da domandarsi come potrà svolgere un qualsiasi lavoro che richieda almeno la lettura di un manuale di istruzioni.
Già nel 2019 Massimo Arcangeli, docente di linguistica italiana, filologia e letteratura, che da molti anni intervista studenti universitari e liceali per appurare il loro livello di conoscenza dell’idioma italiano, aveva lanciato l’allarme: “Il quadro che emerge è devastante. Su 196 matricole, 153 non conoscono il senso di morigerato, 158 di abulico, 186 di ondivago”.
Una ricerca Ocse svolta nel 2023 sostiene che il 70% degli italiani non sa ricostruire con parole proprie ciò che ha appena visto in tv o letto sui giornali. Come siamo potuti arrivare a questo punto?
Una spiegazione avevo cominciato a proporla nel 2017, quando nel saggio McLuhan non abita più qui? (Bollati Boringhieri) avevo messo in guardia dagli effetti di una sindrome che avevo definito “costante attenzione parziale”: l’abitudine delle giovani generazioni (e non solo) a vivere di frammenti, continuamente distratti dall’uso compulsivo dello smartphone e dei social media.
Un simile combinato disposto è stato effettivamente devastante anche perché insegnanti e genitori non ne hanno saputo cogliere la gravità. C’è stato persino un ministro dell’Istruzione (Valeria Fedeli) che aveva promosso l’uso del cellulare in classe “come moderno supporto alla didattica”. Cellulare che invece si è rivelato anche un potente mezzo di distrazione di massa, con i risultati che ora sono sotto gli occhi di tutti.
La mia intuizione è stata di carattere empirico: dal 1998 ho insegnato comunicazione sociale come docente a contratto per cinque anni all’Università La Sapienza, per quattro anni all’Università San Raffaele-Vita, e poi per altri 15 alla Iulm. In tutto questo tempo ho dialogato ogni anno con studenti di vent’anni il cui pensiero mi appariva sempre più destrutturato a causa di questo vivere di momenti, introitare frammenti, e quindi elaborare frammenti. Ma dato che “rubbish in, rubbish out” – così recita il vecchio proverbio americano dell’informatica – nel discutere le tesi, nei laboratori, e soprattutto agli esami, ho riscontrato una crescente maggioranza di soggetti incapaci di approfondire, analizzare e dialogare.
I test Invalsi e le altre ricerche fotografano una situazione certamente irrecuperabile a breve, in quanto il disastro è iniziato con il degrado educativo della scuola elementare per poi proseguire nelle scuole di grado superiore. La riprova che la tanto decantata tecnologia, invece di fornire soluzioni, è parte del problema, l’abbiamo avuta con l’esperienza della Dad durante i lockdown. Lo ha spiegato con severa lucidità la giurista Elisabetta Frezza, responsabile dell’area scuola dell’Associazione Contiamoci: “Il recente esperimento sociale dei lockdown, di cui la scuola è stata laboratorio privilegiato, ha prodotto anche un effetto collaterale: ha fatto suonare un allarme così forte da non poter più essere soffocato. Perché il riavvio delle lezioni dopo il loro trasloco nella bolla telematica (con la fallimentare Dad), oltre a far emergere il diffuso danno psicofisico arrecato ai più giovani da misure securitarie sproporzionate, ha messo impietosamente a nudo le paurose voragini cognitive accumulate nel tempo dagli scolari (da ben prima della emergenza). Essi sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti e profondamente provati dalla esperienza nefasta dell’isolamento domestico; dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità; dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione fraudolenta di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce, in modo infungibile. La cattività, insomma, ha fatto da detonatore a problemi preesistenti e in buona parte già cronicizzati”.
Che fare? L’unica modalità per tentare di porre un qualche rimedio potrebbe consistere in una grande campagna capace di convincere i ragazzi che l’abuso di smartphone e social media non è più di moda, e che è molto più “cool” riscoprire la lettura, lo studio approfondito e i rapporti interpersonali non mediati da alcun supporto elettronico. Un’impresa semplicemente titanica, vista la quantità di interessi che spingono i giovani a vivere dei frammenti distribuiti a piene mani dai social, e a produrre essi stessi contenuti brevissimi per ottenere più like sui propri post.
Poi bisognerebbe ricominciare a cambiare tutta la scuola, dalle elementari in su, coinvolgendo insegnati, genitori ed editori di libri scolastici in un grande progetto di riqualificazione educativa. Potrebbe sembrare un’impresa impossibile, invece non lo è: lo dimostra la crescita esponenziale delle scuole parentali, purtroppo ancora troppo spesso velleitarie e improvvisate, avviate e sostenute da comunità di famiglie e insegnanti che non si rassegnano all’ipotesi che per i loro figli e allievi possa esistere solo un futuro a base di reddito di cittadinanza, in cui non “avranno nulla e saranno felici” (Klaus Schwab).
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