Il lockdown ci ha reso all’apparenza tutti uguali, in realtà si è trattato di un finto livellamento dietro il quale molte diseguaglianze, se andiamo avanti come oggi, sono destinate ad aumentare. Soprattutto tra i giovani. A dirlo è Chiara Saraceno, sociologa, fellow del Collegio Carlo Alberto di Torino ed editorialista di La Stampa e Repubblica. Saraceno sarà ospite oggi al Meeting di Rimini nell’incontro dal titolo “Pandemia 2020: Da dove si ricomincia?”. In accordo con il principio di sostenibilità, dice la studiosa al Sussidiario, occorre “fronteggiare i bisogni legati al perdurare della pandemia come occasione per ripensare al modo di fare scuola non solo per l’emergenza, ma per il futuro di medio periodo”. In questo compito Stato centrale e autonomia, per Saraceno, possono andare d’accordo.



Partiamo dalla domanda che fa da titolo all’incontro: da dove si ricomincia?

Non da una riforma in particolare, ma da un obiettivo che dovrebbe guidare le decisioni, fornire la prospettiva in cui muoversi: il contrasto alle disuguaglianze socialmente strutturate e prodotte, incluse, ma non solo, quelle tra generazioni.



Cosa significa?

Significa mettere in moto processi che contrastino i meccanismi che producono disuguaglianze nelle possibilità di sviluppo delle proprie capacità e nelle opportunità di farle valere, che consentono, quando non creano, condizioni di vita inaccettabili per alcuni individui e gruppi, e che riducono le possibilità delle giovani generazioni e di quelle che verranno, mentre allo stesso tempo le gravano di debiti.

Sotto quali aspetti secondo lei questa pandemia ha manifestato i suoi effetti più distruttivi a livello sociale?

Gli effetti del lockdown hanno allargato le disuguaglianze, creandone anche di nuove. Allo stesso tempo le hanno nascoste.



Si spieghi.

Chiusi nelle nostre abitazioni diverse per spazi, risorse, qualità delle relazioni, abbiamo fatto finta di essere diventati tutti uguali di fronte al rischio e alla privazione di libertà necessaria per proteggerci. Invece non solo non tutti hanno potuto chiudersi in casa – non i medici, le infermiere, ma anche le/gli addette ai supermercati, alla logistica, alle pulizie, alla produzione di beni essenziali – ma la chiusura ha sottratto il lavoro e il reddito a molte persone.

Quali sono le categorie più esposte?

Personale per lo più a bassa qualifica o con contratti precari, con una concentrazione di giovani di ambo i sessi e donne di ogni età. Non solo. Il lockdown ha anche sottratto alcuni beni pubblici a chi ne aveva più bisogno.

Ad esempio? Quali beni pubblici?

La scuola – incluso il pasto, in molti casi – ai bambini e ragazzi che non avevano in famiglia risorse per compensarne l’assenza, le cure mediche a molti che ne avrebbero avuto bisogno, la possibilità di chiedere aiuto a chi in famiglia aveva difficoltà.

Perché l’istruzione, la risorsa umana più importante del nostro paese, è anche la più negletta? È solo una questione di bilancio pubblico? O è un problema di volontà politica?

Purtroppo non sono solo i politici che, essendo preoccupati dell’orizzonte breve delle scadenze elettorali, non mettono quasi mai al primo posto gli interessi delle generazioni più giovani, che non votano. Anche i cittadini, anche da genitori, hanno comportamenti analoghi quando agiscono come elettori o quando si tratta di scegliere tra le priorità di spesa. Altrimenti non avrebbe avuto tanto successo l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa o quota 100, e tanto insuccesso la riforma Fornero che, pur con limiti e semplificazioni, era a favore delle generazioni più giovani.

E qualcosa durante la pandemia secondo lei è cambiato?

Uno dei pochi aspetti positivi della pandemia è stata la scoperta, innanzitutto da parte dei genitori, dell’importanza della scuola come luogo di apprendimento ma anche di socialità, di formazione all’autonomia e di “spazio per sé” dei bambini e ragazzi. Io spero che questa attenzione rimanga al di là dell’emergenza e che genitori e ragazzi continuino a battersi, possibilmente insieme agli insegnanti, perché la scuola non venga più messa ai margini e si continuino a investire risorse, non solo finanziarie ma intellettuali e di creatività, perché essa realizzi la sua funzione di costruzione di pari opportunità per bambini e ragazzi.

Non le sembra che scuole e insegnanti riescano a fare il loro lavoro nonostante la macchina amministrativa che li governa?

Non sono d’accordo con l’opinione che sottende questa domanda, nonostante abbia un giudizio molto critico su chi ha retto la scuola negli ultimi vent’anni, inclusa la ministra attuale. Non mi sembra che la scuola funzioni (o non funzioni) nonostante l’amministrazione. Piuttosto l’amministrazione deve tenere conto di interessi diversi. E quelli degli studenti, che dovrebbero essere i principali, vengono sempre per ultimi.

Chi ha messo i propri interessi davanti a quelli degli alunni?

Mi viene in mente la questione dei docenti che, certo legittimamente, vogliono avvicinarsi a casa avendo vinto un concorso in una zona lontana, lasciando sguarnita quest’ultima per cui pure il concorso era stato bandito. O il rifiuto sistematico di qualsiasi tipo di valutazione. A mio parere anche gli insegnanti come singoli e come categoria organizzata hanno le proprie responsabilità su ciò che non va nella scuola. Il che non significa che moltissimi non siano bravi professionalmente e capaci di innovazione. Entrambe le facce si sono viste nel lockdown.

E poi?

Una riflessione analoga si potrebbe fare per i genitori, troppo spesso “rivendicativi” per i propri figli verso gli insegnanti, invece che impegnati in un patto educativo collaborativo da entrambe le parti.

Nel frattempo centralismo e burocrazia spadroneggiano. Esiste il modo di ridurre la presenza onnivora dello statalismo centralista?

Anche in questo caso non sono d’accordo con l’immagine della “presenza onnivora dello Stato centralista”. Vorrei una maggiore presenza dello Stato a garanzia di livelli essenziali di qualità e quantità dell’educazione e di contrasto alle disuguaglianze educative. È mancato prima della pandemia ed è mancato ancora di più durante e temo anche con l’auspicabile riapertura a settembre. Neppure l’autonomia scolastica purtroppo ha dato buona prova, in generale, nonostante buone eccezioni.

Qual è la strada da percorrere?

Direi che accanto ad un forte sostegno alla qualificazione e aggiornamento degli insegnanti in direzione di una didattica più adeguata a come sono fatte le nuove generazioni e che metta al centro l’apprendimento piuttosto che l’insegnamento, sarebbe utile sviluppare patti educativi territoriali che vedano la scuola pubblica inserita nel proprio contesto e alleata con tutti i soggetti educativi presenti sul territorio. In questo modo garanzia di standard su tutto il territorio e autonomia potrebbero sostenersi vicendevolmente e l’autonomia arricchirsi di contenuti.

Secondo un recente studio l’isolamento e l’interruzione delle relazioni interpersonali avrebbe pregiudicato l’apprendimento negli adolescenti. Come si affronta un problema di questa portata?

Sono ormai molte le ricerche di questo tipo, che riguardano soprattutto i più piccoli, gli effetti negativi sui quali, specie se già in condizioni di svantaggio, sono stati e sono tragicamente sottovalutati in Italia. Molti singoli e associazioni – penso ad esempio alle 9 reti di associazioni che si sono raccolte attorno al documento EducAzioni – avevano chiesto a Conte e Azzolina che si utilizzasse l’estate per avviare iniziative di contrasto degli effetti negativi del lockdown. Purtroppo non è avvenuto e la cosa è stata lasciata all’iniziativa delle associazioni, là dove c’erano ed hanno trovato collaborazione nelle singole scuole.

Cosa bisogna fare?

Ora è importante che con la ripresa non ci si preoccupi solo di recuperare “debiti” (in realtà si tratterebbe di esigere crediti) e apprendimenti mancati, ma di ricostruire sicurezze, fiducia, pur in un contesto che continuerà ad essere segnato dalla pandemia. Mi auguro che le esigenze sanitarie non continueranno ad essere le uniche a dettare legge nella scuola, ma saranno integrate dall’attenzione per i bisogni, le fragilità, ma anche le capacità di resilienza dei bambini e ragazzi, in collaborazione con le famiglie e con gli altri soggetti educativi.

Uno dei temi chiave del suo appuntamento di oggi al Meeting è quello di “sostenibilità”. Che cosa implica riferito all’educazione e soprattutto all’istruzione? 

Significa fronteggiare i bisogni legati al perdurare della pandemia come occasione per ripensare al modo di fare scuola non solo per l’emergenza, ma per il futuro di medio periodo. La scuola ha bisogno di più risorse, i docenti vanno pagati meglio, ma sarebbe negativo semplicemente aumentare la spesa senza modificare un sistema che si è rivelato spesso incapace di contrastare le disuguaglianze educative e di sviluppare le potenzialità degli studenti.

La scuola italiana avrebbe bisogno anche di ingenti interventi sulle strutture.

Certo è necessario investire sulle strutture, ma nell’ottica di una didattica innovata, più flessibile, più in interazione con il “fuori scuola”, con docenti meglio formati. Aumentare il numero delle aule, dei banchi, dei docenti, mantenendo il modello di una didattica frontale autoreferenziale rischia di essere uno spreco inutile.

Qual è suo scenario per i mesi che ci aspettano?

Lo scenario che vorrei è quello di forti investimenti nell’educazione – incluso il superamento del digital divide –, anche per gli adulti, e nell’ambiente – dove c’è moltissimo da fare anche solo per mettere in sicurezza il territorio –, con attenzione per il contrasto alle disuguaglianze sociali e territoriali. I volani per un’economia sostenibile e una società più giusta e coesa, secondo me, sono questi.

Questi sono i suoi auspici. Che cosa teme invece?

Lo scenario che temo, e di cui vedo molti indizi, è di mancanza di investimenti strategici a favore di micro-distribuzioni per le categorie più varie, con uno spreco di risorse – che dovranno ripagare le generazioni più giovani – e la perdita di un’opportunità che non tornerà più.

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