“È fondamentale tirare fuori i bambini da casa”. Prendo questa affermazione da Daniele Novara, noto pedagogista ed educatore (non è la stessa cosa…), ma il coro di voci in questo senso è ormai massiccio. Alcune Regioni premono per un’almeno parziale riapertura delle scuole, soprattutto per i più piccoli, fondamentalmente perché i bambini più ancora delle altre fasce di età hanno bisogno di relazioni sociali, ma anche come aiuto per le famiglie che sarebbero in difficoltà a riprendere il lavoro.



Un gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano, mettendo in chiaro che non si occupa degli aspetti legati alla salute ma di quelli “ingegneristici”, ha avanzato la proposta di riaprire con cautela, in quanto, dice il rettore, “se il vincolo sarà di uno o due metri, perché gli adulti possono andare in ufficio o sul tram mantenendo quella distanza e gli studenti no?”



E ancora: “oggi non possiamo ragionare sulla scuola soltanto per il suo valore culturale, che nessuno discute. Ora la scuola può avere un valore aggiuntivo, può diventare un elemento abilitante per la ripartenza. Non considerare la scuola in quest’ottica sarebbe un errore, significherebbe precludersi alcune possibilità”.

Tra l’altro, la scuola di base è una scuola di prossimità, che non comporterebbe spostamenti complessi e contribuirebbe a quel recupero delle comunità di vicinato di cui molto si parla.

Se guardiamo a paesi che hanno già riaperto, come la Danimarca e la Norvegia, vediamo che hanno messo in atto misure molto severe: gli adulti non entrano, i bambini giocano in piccoli gruppi e prevalentemente all’aperto, si cambiano le scarpe e si lavano le mani, i giocattoli sono sterilizzabili, e via dicendo. Le motivazioni sono state non solo di aiutare i genitori, ma di “far uscire i bambini dalla prigionia a qualsiasi costo”: riavviare una certa normalità quotidiana è anche un modo per sdrammatizzare le loro ansie oltre che educare al rispetto degli altri e delle regole. Ma purtroppo l’attenzione a quel che si fa negli altri paesi sembrerebbe limitata agli aspetti economici: insegnanti più pagati, ricerca finanziata meglio, diritto allo studio molto più esteso.



Naturalmente ci sono state raccolte di firme di madri preoccupate, ma quella che viene offerta, nella fase sperimentale, è una possibilità e non un obbligo, come pare che accadrà in Francia. E del resto mi immagino che in Italia si scatenerebbero orde di “no-asilo”, nuova e interessante categoria di “no-qualcosa”.

Quanto ai più grandi, dato che non abbiamo idea di come il covid-19 si muoverà, ripartire adesso in modo graduale eviterebbe il collasso presumibile a settembre. Ho la massima stima per la commissione istituita presso il ministero, di cui conosco e apprezzo un certo numero di componenti, ma il problema non è il parere della commissione, o tanto meno la sua composizione, ma l’effettiva disponibilità del ministero ad attuare il loro parere. Nella mia lunga pratica di commissioni, il rapporto fra suggerimenti e attuazione è sempre stato molto basso: vogliamo dire che tende a zero? Quanto alla propensione ad imparare dall’esperienza, ha addirittura un valore negativo: credo che il numero di innovazioni ignote e sprecate superi in Italia quello di ogni altro paese (esempi su richiesta).

Poiché a criticare son capaci tutti, ma pochi fanno proposte realistiche, la mia idea sarebbe quella di utilizzare il tempo fra metà maggio e l’inizio di settembre lasciando alle scuole (che sono autonome, vi ricordate?…) la possibilità di sperimentare forme di riapertura che rispettino i parametri generali di sicurezza e tutela di studenti e insegnanti, continuando ad utilizzare forme di insegnamento misto, in presenza e a distanza (quasi superfluo notare che parametri di sicurezza concretamente inapplicabili avrebbero l’effetto contrario).

Molte scuole, statali e paritarie, sarebbero in grado di partire subito, non solo fornendo ai ragazzi e alle loro famiglie un aiuto prezioso, ma contribuendo alla soluzione complessiva del problema. Coinvolgere i genitori in questo processo servirebbe anche a renderlo più condiviso, oltre che a fornire qualche possibile buona idea. Ma le vacanze? Se si “spalma” la scuola, si possono spalmare le vacanze.

Tra l’altro, questo eviterebbe un ricorso massiccio ai nonni, di cui il nostro governo si occupa con tale solerzia che impedisce loro perfino di andare a Messa. Del resto, anche gli insegnanti italiani, dice il capo del Governo, sono avanti con gli anni, e non possiamo metterli a rischio.

Ora, a parte il fatto che l’età media è sì la più elevata d’Europa, 51 anni, e circa quattro insegnanti su dieci (dati pre quota 100) hanno più di 55 anni, di insegnanti considerati “fragili” cioè sopra i settant’anni, non ce ne sono proprio, e anche sopra i 65 sono rarissimi. Piuttosto si conferma ancora una volta, ce ne fosse bisogno, che nella scuola vengono prima gli insegnanti e poi gli studenti.

Non è che per caso si pensa ad una certa riluttanza degli insegnanti “deportati” fuori sede, e adesso felicemente ai domiciliari, a riprendere servizio prima di settembre? Nessuno sa quanti siano, e mi auguro di sbagliare.

Oppure, peggio ancora, in questo clima di recupero del centralismo statalista, non è che qualcuno, magari i partiti al governo, pensa che l’emergenza sia un’ottima occasione per ridurre la già limitata autonomia delle scuole, o addirittura per dare il colpo di grazia alle scuole paritarie, di cui si stima che forse una su quattro non riuscirà a ripartire?

Al ministero hanno pensato, in base a pochi semplici calcoli su dati esistenti (non tutti noti, ma certamente esistenti) che fisionomia avrà la scuola nel prossimo anno, e negli anni a venire? Qualcuno ha comparato i pro e i contro del “tutto chiuso a tutti i costi”? Si è tentato un esercizio di generalizzazione delle molte parole in libertà che girano in queste settimane, dai turni allo scaglionamento dell’orario, all’alternanza “didattica in presenza / didattica a distanza”, tanto per citarne alcune, fino ad arrivare all’inedito modello dello studente nel plexiglas?

Basta così. Quando facevo il liceo, i professori ci mettevano in guardia dall’abuso di figure retoriche, in questo caso le domande di cui si conosce o si sospetta la risposta. Possiamo solo chiedere – purché rigorosamente da casa – a san Giuseppe da Copertino, protettore degli studenti di metterci lui una buona parola.

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