Nell’ultima prova scritta di italiano ho chiesto ai miei alunni delle medie di raccontare le parole che avevano caratterizzato il loro primo periodo di scuola nell’anno in cui devono scegliere la scuola secondaria di secondo grado.

La lettura dei loro scritti, poco prima che si apra il periodo delle iscrizioni e pressoché terminati i percorsi di orientamento negli istituti comprensivi e le presentazioni da parte delle scuole superiori, mi ha offerto in questi giorni di vacanza un’occasione preziosa di pensiero. Provo a ribaltare il punto di vista del lavoro che ho chiesto ai miei alunni; scelgo anch’io come loro alcune parole, ma le guardo in trasparenza dalla mia parte, attraverso il lavoro che svolgo ogni giorno dentro le discipline che insegno.



Oltre alle presentazioni delle scuole, oltre alle attività specifiche per la conoscenza dell’offerta formativa del territorio, qual è il contributo che come docente posso dare in questo momento delicato della crescita dei miei studenti? Con quali elementi arrivo, insieme ai colleghi, alla stesura del consiglio orientativo e qual è il reale valore di questo documento?



La prima parola che mi viene in mente per rispondere a queste domande è “conoscenza”, una parola bellissima da tanti punti di vista e che, in questa occasione, porta in molteplici direzioni. La prima è la conoscenza di sé che come insegnanti siamo chiamati a promuovere nei nostri alunni attraverso le diverse attività, lezioni, azioni che proponiamo; è una conoscenza di sé se ciò che facciamo mira a far emergere attitudini, capacità, interessi, limiti e risorse e se, come insegnanti, sappiamo guardare ciò che affiora nei nostri studenti sapendolo cogliere, indicare, mostrare. Conoscenza è quindi anche nostra verso di loro: quanto conosco i miei studenti, quanto li guardo, quanto mi lascio stupire da ciò che mentre insegno vedo accadere? E conoscenza infine deve essere in noi anche di ciò che le scuole superiori domandano a chi vi si iscrive, non tanto (o non solo) nei contenuti che a volte pretendono, quanto negli stili di apprendimento e nella disposizione verso la scuola che i vari indirizzi di studio richiedono.



Qualche anno fa due alunne tornarono dall’open day di un liceo dicendomi che avevano loro raccomandato di riferire alla docente di lettere la necessità di spiegare al più presto il predicativo del soggetto e dell’oggetto. Dato che ho lavorato diversi anni al liceo, compresi subito la richiesta di quell’insegnante, e sorrisi. Non sempre la teoria di ciò “che si deve spiegare” in grammatica segue la logica del reale, e quell’anno avevo deciso di non affrontare quell’argomento. Qualcuno potrà inorridire, ma arrivare a far capire a tutti (non solo a quelli che avrebbero fatto il liceo) la parte nominale del predicato era per me la priorità assoluta: su quella certezza si sarebbe poi potuta innestare, per chi avesse fatto latino, la comprensione del predicativo. Penso sempre più che è solo se si promuove il ragionamento che si possano aprire le vie verso le cime più ardue: ci provo in tutti modi e con tutti gli strumenti che ho, anche – qualora e quando lo ritenga – spiegando oppure no il predicativo del soggetto. Man mano che gli anni passano si sta radicando in me con maggiore contezza la convinzione che sia meglio imparare, e quindi insegnare, non multa sed multum (cosa che devo a grandi maestri).

Sembro divagare, ma questo intermezzo ha molto a che fare con la seconda parola che mi viene in mente pensando all’orientamento: “futuro”. Non c’è dubbio che la scelta della secondaria metta gli studenti di fronte a qualcosa che verrà, che non si sa prevedere, e della quale perciò talvolta hanno paura. È un’associazione che ho trovato spesso in tutte le classi che ho avuto: futuro e paura, futuro e incertezza; e se da una parte è un’associazione naturale, che ha del ragionevole (alle superiori sarà tutto diverso, nuovi compagni, insegnanti, materie…), penso che incertezza e paure non siano condanne a cui i nostri alunni sono votati, ma a due condizioni: che la parola “futuro” sia associata alla parola “presente”, perché è nel presente che posso conoscermi, che viene fuori chi sono, che posso giocare i miei sogni e lanciarmi anche a fare programmi, per una certezza ora; la seconda condizione per cui la paura non li sovrasti e non blocchi quello che è in continua e dinamica crescita in loro è che sul proprio cammino gli alunni trovino adulti certi, saldi e pazienti, che sappiano accompagnarli senza imporre qualcosa né affrettare loro il passo, e che non li lascino senza strumenti per affrontare ciò che li aspetta.

È per questo che, adesso che i nostri studenti delle medie si iscriveranno alle scuole che hanno scelto, il percorso dell’orientamento non è finito né è finito il nostro compito in questo come insegnanti. È un compito che ha radici lontane: comincia ben prima della terza media e ha a che fare con la natura stessa dell’insegnare, con l’essere “maestri” e “autori”, per rubare a Dante le parole con cui accoglie Virgilio all’inizio della sua prima cantica, perduto nella selva oscura. È solo se è un investimento così sul presente, che la scuola può lanciare ogni giorno verso il futuro.