Chi aveva vent’anni alla fine degli anni 60 non può dimenticare l’effetto don Milani. È stato uno di quei fenomeni di psicologia o di psicosi di massa che si spiegano solo con la “maturità dei tempi”.

In quel momento magico degli anni 60, fra l’oppressione del conformismo degli anni 50 e l’onnipotenza del desiderio esplosa con gli anni 70, anni nei quali deflagrò il desiderio del nuovo – soprattutto –, del giusto, del buono e che oggi si rileggono a posteriori come l’unico momento di modernizzazione vera del nostro Paese. Nei quali, non va dimenticato, era stata già realizzata nel ’63 la scuola media unica sotto auspici non millenaristici, ma socialisticamente riformisti.



A forza di leggere don Milani tirato di qua e di là e divenuto araldo e santino della scuola dei Bisogni educativi speciali (Bes), avalutativa e chi più ne ha più ne metta, viene voglia di rileggerlo.

Esce, giusto in questi giorni, L’equivoco don Milani (Einaudi), ultimo saggio di Adolfo Scotto di Luzio. Perché equivoco?



Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, figlio di una famiglia dell’alta borghesia intellettuale atea ebrea, si ribella per la sua forte personalità e trova una causa in consonanza con i tempi: “un cattolicesimo schierato con gli oppressi per partito preso… mai timoroso”. Il libro di Scotto di Luzio scava nelle origini della sua storia e le trova in questo rifiuto che lo spinge a divenire prete (il termine con cui preferisce autodefinirsi, invece di sacerdote, che ne è la versione borghese), con tutto il gusto per la provocazione che ha in tale ambiente questa definizione.

Un cattolicesimo antiborghese il suo, dunque, non conservatore, né tampoco tradizionalista. Ma neppure significativamente segnato dalle vicende del fascismo e della Resistenza. Un afflato profetico che sceglie come oggetto il povero ed il suo rapporto con l’educazione. Un povero preconsumista, anzi anticonsumista malgré soi, che per certi versi ricorda quello di Pasolini, privato però ovviamente della trasgressione sessuale. Don Milani è l’uomo colto che vede con raccapriccio il nascente consumismo dei ceti subalterni, che guarda con sospetto, se non con avversione, ai facili divertimenti e piaceri che le parrocchie cercano di approntare negli oratori, per attirare i giovani. Un’austerità puritana, insomma, che anticipa per certi versi gli atteggiamenti attuali dell’intellettualismo di sinistra.



Sulla scuola la polemica di don Milani si accentra sul fatto che essa inibisce ai poveri il diritto di essere padroni di sé e della propria cultura. Solo ciò che serve alla vita è degno di essere insegnato e Gianni è ricco di questi apprendimenti, mentre si muove molto a disagio fra Omero e Dante, brodo di coltura di Pierino e della sua professoressa. La lingua è l’unica cosa davvero importante (troppa matematica!) perché è uno, anzi lo strumento di potere (qualcuno ricorda Dario Fo? “L’operaio conosce trecento parole il padrone mille per questo lui è il padrone”).

Un aspetto particolarmente interessante del libro di Scotto di Luzio è la sintetica ricostruzione della storia della scuola del popolo. Cose che si dovrebbero sapere, ma che spesso si dimenticano. Si parla di una pressione (che sarebbe tuttora in corso) da parte dei ceti subalterni per accedere alla scuola delle classi privilegiate. In realtà viene qui ricordato che la scuola nasce nella Prussia settecentesca e poi nell’Ottocento borghese, per il desiderio dei ceti dominanti di organizzare ed anche di conformare i ceti subalterni. Solo alla fine dell’Ottocento, con la nascita del movimento operaio – non contadino – si svilupperanno l’aspirazione e l’organizzazione per un’alfabetizzazione popolare, finalizzata prioritariamente alla formazione per il lavoro. La sottolineatura attuale verso la formazione generalista nasce più dalle spinte della piccola-media borghesia, incentivata dall’allargamento degli apparati statali burocratici. La sottolineatura novecentesca europea – e massimamente tuttora italiana – delle humanities come fondamento necessario della cultura di tutti non vede dunque don Milani fra le fila dei suoi propugnatori. Peccato che si tratti di un punto di riferimento essenziale di tutto il pensiero pedagogico politically correct del nostro Paese.

Mentre in Esperienze pastorali (1958) don Milani è ancora apertamente per l’autorità, lo studio, il latino e la colpa dei fallimenti scolastici dei poveri è dell’ambiente cui il giovane va strappato, in Lettera a una professoressa (1967) l’impostazione cambia. Finita l’ipotesi dossettiana della costruzione di una società cristiana, esiliato nel deserto di Barbiana, le sue posizioni si radicalizzano: il popolo non deve essere oggetto subalterno della sua formazione, ma soggetto attivo della stessa sulle “cose più essenziali e più immediate che riguardano l’uomo e sono legate allo sviluppo di un solido sentimento della concretezza della vita”. Solo ciò che serve alla vita è degno di essere insegnato. Le funzioni etiche generali poi sono affidate al Vangelo. Radici in Frobel e Pestalozzi, dice Scotto di Luzio, ricordando che don Milani ebbe una bisnonna pedagogista.

La scolarizzazione ordinaria come la vive il popolo, invero, è violenza pedagogica e trasmissione del potere e del privilegio attraverso una cultura lontana priva di interesse vivo e anche di comprensibilità. Fra gli altri, bersaglio polemico Foscolo ed il suo astruso linguaggio: inaugurate immagini per dire di malaugurio! Ma il povero non accetta di essere così malamente giudicato ed esibisce il proprio fallimento come un’ingiusta violenza subita.

L’autore si spinge fino ad ipotizzare che la forte e prestigiosa personalità del don abbia portato il suo gruppo di ragazzi prescelti alla passivizzazione: una scuola chiusa, dominata da chi voleva essere ed era insostituibile, con un appunto insostituibile afflato profetico. Rinuncia alla modernizzazione, all’autonomia, all’emancipazione anche individualista, viste come meticciato borghese, perdita di identità e di purezza, allontanamento dalla Fede.

In effetti sembra di trovarsi dinnanzi ad un mondo preborghese, qual era la gran parte dell’Italia ancora negli anni 50, con una forte polarizzazione culturale (ancor forse prima che economica), con le classi dirigenti ed egemoni di stile più aristocratico che borghese, senza cultura e classe media e pertanto senza lingua media.

Come ne esce don Milani? Un uomo profondamente prete, di sicuro stile e cultura e di solidissima personalità. Lo stile della scrittura è di quella limpidezza ed efficacia che deriva soltanto da una grande cultura introiettata: una paratassi segno di raffinatezza e non di semplicismo. Ma che forse occupa una posizione impropria nel Pantheon dei suoi seguaci. Un equivoco appunto.

Il mondo dell’inclusività che ne fa un punto di riferimento è quello stesso che si batte per le humanities, per la trasmissione a tutti ad ogni costo (vedi i programmi degli istituti professionali) di quella cultura soprattutto umanistica “alta” che don Milani rifiutava per i suoi “poveri”. Ed ogni tentativo di rivalorizzare l’aderenza alla realtà, la cultura del lavoro (per lui la vera cultura) viene bollato come finalizzato alla condanna alla minorità sociale ed intellettuale, se non allo sfruttamento. Dice lui: “la cultura che occorre: la cultura contadina…”.

La serietà, lo studio e l’impegno costante e diuturno sotto la guida del maestro sono le metodologie che ci è dato leggere in quelle pagine: niente apprendimento gioioso, naturale e facile o i metodi socratici delle metodologie attive moderne. Dice sempre ancora lui: “Io sono un ragazzo influenzato dal maestro. E me ne vanto. Se ne vanta anche lui. Sennò la scuola in cosa consiste? …un ragazzo che ha un’opinione personale su cose più grandi di lui è un imbecille; a scuola si va per ascoltare quello che dice il maestro…”.

Forse è il caso di rendere a Cesare quel che è di Cesare, con quel che ne consegue.

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