È tempo di vacanza per molti e, secondo i consueti stereotipi nostrani rimbalzati sui forum e per via web, gran parte del popolo italiano – in età non scolare – invida i famigerati tre mesi di vacanza dei malpagati insegnanti. In questi giorni, però, c’è stato un-dietro-le-quinte che nemmeno la mezza retorica brunettiana della fannullaggine, ormai stantia, può confutare: i docenti sono stati chiamati a tirare le somme di un anno scolastico facendo qualcosa che perlopiù le famiglie italiane percepiscono come un verdetto: gli scrutini.
Si decide per la promozione o la bocciatura che, nell’anti-lingua calviniana del burocatese scolastico, si definisce ammissione o non ammissione (non esiste la dismissione?) alla classe successiva. Chi avrà visto uno spassosissimo film degli anni Novanta, La scuola, di Daniele Luchetti, basato sui romanzi di Domenico Starnone, ricorderà certamente un lungo e probabile scrutinio, che, nella filosofia filmica, diventa l’occasione di parlare di tante cose. Certo, lo scrutinio per un’alunna o un alunno è un momento di giudizio sulla sua vita scolastica che tanta importanza ha negli anni della crescita e della formazione. Rimane in mente, per chi ha visto il film, Silvio Orlando, docente di lettere, sconfitto dalla vita in quanto idealista sinistrorso, perché la scuola – forse – è diventata la “sua” di vita; e rimane anche in mente il professor Montillaro, che si è fatto scudo dalla scuola con un amabile cinismo: “Almeno uno fatemelo bocciare!” è la sua preghiera. E per “scherzare”, persino il giorno dello scrutinio, chiama la polizia per dire, anonimamente, che c’è una bomba nella scuola.
Lo scrutinio è, dunque, il momento in cui i docenti si confrontano in maniera sincera e autentica facendo scaturire la loro visione della realtà di cui un alunno, scolasticamente, diventa incarnazione. Ma serpeggia da anni – ormai è del tutto evidente – una tacita tendenza che qualche professore, che qualcuno direbbe di vecchio stampo, ormai ha stigmatizzato come deriva iperprotettiva e assistenzialista della scuola, soprattutto nei momenti clou, cioè agli scrutini.
Questa tendenza potrebbe essere ribattezzata come deriva “petalosa”: come qualcuno potrà forse ricordare, qualche anno fa, alle scuole elementari Marchesi di Copparo, in provincia di Ferrara, la maestra Margherita Aurora, svolgendo un esercizio di lingua italiana sugli aggettivi per descrivere un fiore, si trovò di fronte a un neologismo inventato da un suo alunno di terza elementare, Matteo e, invece di “correggere” l’errore scaturito dalla fantasia di rodariana memoria (mi riferisco al suo celebre saggio La grammatica della fantasia), incuriosita e divertita, decise di mandare il nuovo lemma all’Accademia della Crusca per una valutazione. La Crusca rispose e lo valutò “bello e chiaro”. E da allora abbiamo una nuova parola nel nostro dizionario per un approccio “buonista” della maestra Margherita. Anzi, la deriva “petalosa” si è quasi istituzionalizzata, adesso solo verbalmente, nella scuola “affettuosa” sostenuta dal ministro Bianchi, il che ha generato in certi docenti riottosi sconcerto per la sue conseguenze diseducative e tossiche nella formazione umana e didattica dei ragazzi.
In questa prospettiva, la bocciatura diventa pericolosa per il benessere psicofisico dell’adolescenza, che vive virtualmente su Instagram e ha i suoi modelli in “eroi” da TikTok. “Ogni alunno”, in base alla normativa ministeriale, “ha diritto ad una valutazione trasparente e tempestiva … La valutazione concorre, con la sua finalità anche formativa e attraverso l’individuazione delle potenzialità e delle carenze di ciascun alunno, ai processi di autovalutazione degli alunni medesimi, al miglioramento dei livelli di conoscenza e al successo formativo”.
Nel futuro, dunque, si pone una grande questione: ha senso ancora la bocciatura? La scuola è un mondo complesso e ha bisogno certamente di maggiori finanziamenti e di un’organizzazione più efficiente, ma non è cosa facile; tuttavia, deve trovare un suo ruolo più chiaro e preciso nella società di oggi, che cambia e muta – non so in bene o in peggio – con grande velocità, mentre ha ancora un impianto sostanzialmente ottocentesco-gentiliano, con qualche venatura democratizzante in riferimento alle riforme degli anni Settanta. Il resto delle innovazioni apportate nel corso del tempo sono aggiunte posticce calate dal governante di turno, senza un reale progetto a lungo termine oppure un disegno alto e di lungo respiro.
Negli scrutini, i docenti spesso parlano di maturità dell’alunno come individuo che cresce, della partecipazione alla vita della classe-gruppo e classe-comunità, che spesso viene sintetizzato nel voto di condotta o comportamento. Andrebbe meglio esplicitato, se possibile, il ruolo della scuola oggi. C’è un’aggiunta che ci dice la rotta seguita dal vascello scuola, il cui timoniere procede al meglio che può, a vista se non a cabotaggio: le character skills.
Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, ha affermato: “Le character skills sono il futuro dell’orientamento al lavoro. Nessuna agenzia educativa da sola (scuola, famiglia, parrocchia, associazioni, impresa) è in grado di realizzare una simile progettualità: occorre una comunità educante”. La fotografia è chiara e l’analisi è attendibile: la sfida sarà come metterle in pratica nella realizzazione della comunità educante. La tendenza è dietro l’angolo: se lo scorso anno la Finlandia, che vanta, ancora secondo molti, il miglior sistema scolastico al mondo, ha “abolito” le materie tradizionali, da noi ritorna ciclicamente la proposta politica dell’abolizione della bocciatura, anche di recente.
La prospettiva, in conclusione, sarebbe quella di rivoluzionare la scuola e cambiare la mentalità del corpo docente italiano, ma abbandonare sul serio la tradizionale impostazione della didattica per conoscenze a favore di quella per competenze sembra non essere così a portata di mano. E poi, noi docenti come potremmo dare i voti alle “competenze” nel futuribile scrutinio?
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