Gentile direttore,
non posso non scrivere una risposta, nel leggere la brillante geremiade della collega Silvia Stucchi, una delle rare docenti che coniuga, con acume e passione, la didattica in classe alla ricerca accademica nella letteratura latina. A lasciarmi l’amaro in bocca non è la situazione ben fotografata dalla Stucchi nella sua lettera, ma la manacanza di argomentazioni che non riesco a individuare nel suo
cahier de doléances.



Se si pensa, ancora, o si spera, per l’ennesima volta, che si “possono leggere senza mediazioni le fonti letterarie, per i filosofi, (…) per gli archivisti e gli storici dell’arte, per i linguisti e i glottologi”, a scorgere il mondo “reale” – caratterizzato da una società liquida, da una globalizzazione virulenta, dall’ipertecnologismo, dalla recrudescenza del “pensiero selvaggio” di Lévy Strauss – mi chiedo: che valore hanno per i giovani di oggi “materie che richiedono uno studio sistematico, soprattutto se hanno un forte taglio storico”?



Si va oltre le categorie di apocalittici e integrati di cui parlava, in maniera pionieristica, Umberto Eco; che cosa rimane a noi di un mondo fatto di parole che non sono più pietre (Levi), ma sono talmente alate (Omero) da volatilizzarsi subito all’instante, come una foto su snapchat o un messaggino scritto, in simil-italiano, pidjin su whatsapp?

Gıustamente la Stucchi rileva che “la vera difficoltà sta nella capacità di uscire indenni dal colloquio di letteratura: perché sempre di meno gli studenti nella secondaria di secondo grado sono messi di fronte alla responsabilità di gestire autonomamente ampie parti del manuale; perché, per brevità e praticità, studiano sugli appunti, presi magari dallo studente diligente del gruppo”.



Brevità è la parola chiave: si scriveva nel passato per immortalare e rimanere eterni e famosi (basta leggere la lettera petrarchesca Ad posteritatem), ora si scrive per leggerezza, secondo la lezione americana di Calvino: “la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”.

In una didattica sempre più parcellizzata, accompagnata dalla didattica delle competenze ed altre metodologie poco nostrane (flipped classroom, learning project-based eccetera), come ben dice la Stucchi “gli studenti arrivano all’università, anche in facoltà umanistiche, non solo con un bagaglio lessicale spesso carente, talora incapaci di esprimersi, soprattutto in forma scritta, in un italiano corretto”; e se non sanno scrivere in italiano, come facciamo?

Esistono i laboratori di lingua e scrittura italiana, organizzata da quasi tutte le facoltà universitarie di Italia; inoltre, l’associazione italiana Giscel organizza nell’aprile 2020 un convegno dal titolo significativo: “La scrittura nel terzo millennio”. Infatti essa è, come leggiamo nell’invito, “abilità linguistica fondamentale, la scrittura è uno strumento indispensabile per la costruzione del sapere e contribuisce, in particolare nella moderna società dell’informazione, allo svolgimento di numerose attività culturali e professionali, nonché al successo delle relazioni interpersonali.

E allora proporrei alla collega Stucchi di fare meno letteratura e più scrittura, o almeno di valutare le potenzialità didattiche al triennio liceale, visto che nei primi due anni occorre rifare il programma di grammatica italiana delle scuole medie: non è affatto vero che studiando la storia della letteratura e leggendo testi in un italiano antico si impara a scrivere bene!

Tralascio la storia, che è diventata un mostrum, la “geostoria” (parlo del biennio). “La storia” scrive la Stucchi “in altre parole, riempie, per così dire, tutti gli spazi vuoti, come l’aria, e non si studia per poi dimenticarla subito dopo”: esatto! Ma aggiugerei: tristemente. Per come viene spesso insegnata agli studenti di quattordici anni è aria fritta (per loro)!

Con l’auspicio dell’abolizione “dei vasti, faticosi, ma imprescindibili manuali” che troppe volte sono scritti da accademici (o dai loro anonimi assistenti), che non hanno mai messo piede in un’aula scolastica (e si vada a vedere il curriculum di chi insegna all’università il corso di “Didattica del latino”!), non ci resta che sperare di non trovare sotto i banchi dei nostri alunni il chewingum già masticato durante una tediosa lezione di latino o italiano, non allietata da un bel cellulare acceso.