La recente pubblicazione dei risultati della ricerca Piaac dell’Ocse, che ha coinvolto 31 Paesi ed è relativa alle competenze degli adulti (tra i 16 e i 65 anni), mostra che gli italiani hanno punteggi piuttosto bassi in rapporto alla media dei Paesi coinvolti nell’indagine. Le aree su cui si è indagato sono quelle della literacy, della numeracy e del problem solving. Nella prima area il 35% degli italiani si classifica a un livello pari o inferiore a 1, il che significa che le persone coinvolte sono in grado di comprendere solamente frasi brevi e semplici. Per quanto riguarda la seconda area, si reitera lo stesso risultato e cioè che il 35% della popolazione raggiunge il livello 1: quello delle persone che sono solamente in grado di fare calcoli di base, con numeri interi o maneggiando denaro, ma che hanno difficoltà a calcolare, ad esempio, una proporzione. Circa l’Adaptive Problem Solving, il numero di coloro che è in grado solamente di risolvere problemi semplici, posto cioè al livello 1, consta del 29% della popolazione. Un po’ meglio, ma non c’è da rallegrarsi. Infatti, se si considerano contemporaneamente i tre domini, gli italiani ottengono sempre un punteggio basso, cioè pari o inferiore al livello 1.
Le brutte notizie, tuttavia, non finiscono qui, perché lo scorso 6 dicembre è stato presentato il 58esimo rapporto annuale del Censis dedicato all’anno in corso.
Il Censis, fondato nel 1964, ha descritto nei decenni la situazione socio-economica del Paese, ricorrendo spesso a metafore evocative. L’Italia è stata considerata un “Paese in bilico”, per indicare lo stato di precarietà e mediocrità in cui versa ormai da anni, un Paese definito altresì come “duale”, per cogliere la ormai cronica spaccatura tra Nord e Sud; caratterizzato inoltre dalla “diade generazionale”, come espressione della distanza, in passato oppositiva, tra generazioni. E poi la metafora della “liquidità” – ereditata dal grande Zygmunt Bauman –, usata per spiegare le capacità di adattamento e di resilienza degli italiani. Il Censis, infine, è giunto alle ermeneutiche più recenti in cui la società è stata descritta come pervasa dal “rancore”.
Nonostante il linguaggio vivido e immaginifico, che parrebbe alludere ad analisi perentorie e in qualche misura vigorosamente connotate, il Censis non ha mai abbandonato l’attenzione alla complessità, che è cifra perspicua delle sue attività di ricerca. Ma il Rapporto recentemente pubblicato, che pur contiene una pluralità di dati eterogenei e apparentemente divergenti, in realtà propone una chiave di lettura abbastanza netta. C’è come sempre il mare della complessità, che spinge per sua natura ad atteggiamenti equilibrati e un po’ democristiani, ma questa volta l’avvertimento che il Censis offre non consente dubbi interpretativi e ignavia. La nostra è una società che “galleggia”, che sopravvive decentemente nelle fasi difficili, come la pandemia, che però non prende l’abbrivio nei momenti in cui il vento è favorevole. Oggi, però, troppi sono gli handicap che ne rappresentano il gravame: quello del debito pubblico, della denatalità, della mancanza di crescita… Pesi che non solo non consentono di volare, ma che, pur tenendo la mongolfiera Italia a galla nel cielo, sono destinati a farla scendere, se non precipitare.
Cosa non funziona? La risposta è perentoria: è il sistema scolastico (e di formazione) che è “una fabbrica di ignoranti”. Si legge: “Non raggiungono i traguardi di apprendimento: in italiano, il 24,5% degli alunni al termine del ciclo di scuola primaria, il 39,9% al terzo anno della scuola media, il 43,5% all’ultimo anno della scuola superiore (…); in matematica, il 31,8% alle primarie, il 44,0% alle medie inferiori e il 47,5% alle superiori”. Per non parlare degli eventi storici e dei grandi personaggi di cui gli italiani sanno poco o nulla (Mussolini, Mazzini, l’anno dell’Unità d’Italia, ecc.).
Quali le conseguenze? Non si reperiscono specialisti e tecnici vari nel mercato del lavoro. Non ci sono giovani disponibili a svolgere attività manuali (artigiani, agricoltori, operai specializzati). Mancano medici, infermieri, farmacisti. E potrei andare avanti (o meglio lo potrebbe il resoconto del Censis). Insomma il sistema scolastico non funziona e, senza capitale umano, niente crescita.
Certamente il male è pregresso e imputare i malfunzionamenti all’attuale ministro sarebbe disonesto. Però va detto che il ministro Valditara può vantare solo alcuni modesti miglioramenti, correttamente evidenziati da Invalsi, che non sono sufficienti, tuttavia, a implementare una politica incisiva. Si distribuiscono, sì, i soldi del PNRR, ma solo una parte è utile per i ragazzi con dei corsi pregevoli. Molti altri, invece, sono come pioggia sui vetri che non lascia traccia. Prima o poi dovremo fare questi conti e cercare di capire quanti dei finanziamenti siano stati ben utilizzati e quanti invece siano andati persi in iniziative inutili. Certamente non pare sensato frammentare l’attività scolastica in una molteplicità di educazioni, a partire da quelle attinenti l’educazione civica per finire a quelle orientative e di tutoring.
Quello di Valditara è un progetto schiacciato sulla contingenza e sulle emergenze (come quella a Caivano), privo di lungimiranza. Un rattoppo provvisorio. I sindacati sono soddisfatti dei soldi che girano e non hanno altri interessi se non l’immissione in ruolo di una moltitudine di precari, con vagli inadeguati (come è successo con la recente “infornata” di dirigenti scolastici il cui merito sostanziale è stato quello di aver presentato ricorso contro la bocciatura al precedente concorso ordinario). Immissioni in ruolo che, considerato il crollo demografico, provocheranno la riduzione delle possibilità di accesso nella scuola ai futuri laureati.
I nodi problematici di questi malfunzionamenti sono altri e tra di essi quello corposo della governance della scuola, regolata dai decreti delegati del 1974, ovvero di mezzo secolo fa. Lo spirito di partecipazione è venuto meno nel corso del tempo e va ricostituita un’alleanza tra adulti, cioè tra insegnanti e genitori. Il patto educativo che ha informato la scuola è ormai declinato da tempo e la partecipazione è crollata. Ne sono testimonianza gli episodi di aggressività rivolti ai docenti e ai presidi. Ma i sindacati si oppongono a qualsiasi riforma, figurarsi a quella dei decreti delegati. Il bene comune della scuola imporrebbe lungimiranza e coraggio, ma non se ne vede traccia.
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