Sembra un episodio lontanissimo, ben più dei festeggiamenti che nei corridoi delle scuole hanno liquidato gli esami di Stato, ma è opportuno ricordare che le cronache dei giornali, non molto tempo fa, raccontavano dei liceali del Berchet di Milano, una parte dei quali si era trasferita ad altre scuole, dichiarando di soffrire di ansia e di sentirsi vessata dai professori.
È difficile conciliare le goliardiche baldorie di fine esame con il malessere degli studenti milanesi, che senz’altro rappresenta una condizione diffusa non solo in quella città. Nel primo caso si è di fronte a forme di allegria che spesso vanno oltre la legittima soddisfazione per la conclusione di un esame, particolarmente quando il frastuono finisce per disturbare i colloqui di altri alunni. Nel secondo caso ci si trova di fronte a una dimensione di disagio che pare essere una costante esistenziale in gran parte dei giovani. Ma la contraddizione è solamente logica, perché nella vita effettiva il piano della gioia e dell’allegria si alterna con quello del dolore e della tristezza ed entrambi comprendono stati d’animo che digradano gli uni negli altri.
Già Gustavo Pietropolli Charmet, in un saggio di alcuni anni fa, definiva la condizione giovanile come una miscellanea di spavalderia e fragilità, indicando proprio in quest’ultima una delle cifre atte a connotare l’adolescenza. I giovani di oggi, infatti, guasconi negli atteggiamenti, sono tuttavia più esposti alle intemperie della vita rispetto ai loro omologhi delle passate generazioni. E hanno una resilienza minore.
La fragilità, così, diventa l’epitome dell’adolescenza. Eugenio Borgna ne fa una splendida descrizione. Se essa, negli adulti, ha il volto della malattia fisica e psichica, negli adolescenti ha il carattere della discesa negli abissi dell’insicurezza e della disperazione, che subentra alle vertiginose ascese nei cieli della gioia. Aggiungerei che i passaggi da uno stato d’animo all’altro sono anche favoriti dall’uso di alcol e sostanze, i quali sono sempre più diffusi e rappresentano una sorta di negative coping, un adattamento disfunzionale.
La fragilità, in una società esteriorizzata, dove i comportamenti pubblici, di disvelamento della privacy e di trasparenza costituiscono l’orientamento dominante, appare come un disvalore, cioè cifra di una soggettività mal socializzata. Ma essa, più che essere inadeguata, risponde a un codice alieno rispetto a quelli dominanti e spesso si declina nella riservatezza, improntando le relazioni di sensibilità. La scuola può favorirne lo sviluppo, particolarmente negli insegnamenti di humanities, recentemente riscoperti anche nel mondo anglosassone, che ha riconosciuto alla storia, alla filosofia, alla letteratura e alle lingue antiche la capacità di formare criticamente i giovani, offrendo loro, unitamente alle conoscenze, anche la capacità di elaborare una visione del mondo, utile fra l’altro nel lavoro.
Ma l’aspetto centrale – come suggerisce lo psicanalista Paulo Barone – è quello del rapporto tra mondo interno ed esterno, perché la società attuale, mentre ha posto in crisi le fondamenta del reale, le dominanti collettive, facendo decadere l’ordine delle cose e provocando l’evanescenza del mondo stesso, ha causato altresì un ripiegamento del soggetto nella propria interiorità. I giovani che eludono la vita sociale, gli hikikomori ad esempio, o quelli che vivono la sessualità solamente tramite i porno offerti in Internet (si pensi alle ricerche di Philip Zimbardo e più recentemente di Luigi Zoja) non rappresentano altro che il sostrato di una patologia che, tuttavia, ricade nella norma e pertanto può definirsi come “normale”. La necessità di ripararsi da una società estroversa, che sul piano cognitivo non offre più la polpa del reale né, su quello pratico, valide indicazioni comportamentali, produce necessariamente il bisogno di introversione, come suggerisce Barone. Da questo punto di vista, il ripiegamento su di sé pare essere espressione di una risposta equilibrata. In altri termini, dobbiamo imparare a convivere con questo nuovo bisogno, che pare preludere a una nuova soggettività del mondo contemporaneo.
Come educatori, tuttavia, dobbiamo rispondere a una domanda cruciale, che si impone nell’attualità ed è quella relativa alla crescita degli adolescenti.
Molti sono convinti che il ripristino delle modalità di un tempo, ponendo i giovani, senza sconti, di fronte alle prove hard dell’apprendimento sia la cosa migliore. Secondo questo punto di vista, occorre respingere la filosofia delle promozioni facili e temprare i giovani, inducendoli a fronteggiare le asperità dell’apprendimento, che sono il preludio di quelle della vita. Un tale messaggio ha una sua fondatezza ma, più che riproporre un modello educativo spartano, dovremmo semplicemente ripristinare il dialogo con le famiglie, evidenziando come gli atteggiamenti iperprotettivi e la proiezione dei sogni genitoriali di perfezione (carriera, bellezza, successo, ecc.) non aiutino i figli a crescere.
Per quanto riguarda la scuola, se si vuol perseguire la strada della severità, uno dei primi passi, che avrebbe un alto valore morale, potrebbe essere quello di non fare sconti agli insegnanti, per i quali non dovrebbe essere previsto il ruolo tramite leggi di sanatoria. Forse vale la pena di ricordare che la maggior parte degli attuali docenti lavora a tempo indeterminato grazie a concorsi riservati. Così ci si appresta a fare anche adesso, con quelli di sostegno. Ciò riguarda anche i docenti che avevano concorso al ruolo di dirigente scolastico, i quali, non avendo superato le prove, erano ricorsi ai giudici. Ebbene costoro, cioè i ricorrenti, hanno oggi la possibilità di fruire di un percorso riservato, per l’acquisizione di quel ruolo.
Ho la sensazione che oggi si richieda ai giovani ciò che gli adulti non richiederebbero mai a sé stessi.
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