Quanto costa una siringa a Lampedusa e quanto a Merano? Quanto costa una lavagna interattiva e multimediale (la cosiddetta Lim) ad Aosta e quanto a Monopoli? Da tanti anni sentiamo ripetere queste domande, e sembra di essere rimasti sempre al punto di partenza.
A voler essere precisi, di costi standard il legislatore nazionale ha iniziato a parlare con una qualche decisione con la legge sul “federalismo fiscale”, la n. 42 del 2009. Dopo la riforma costituzionale del 2001, infatti, era rimasta lettera morta quella parte che, seppure con qualche genericità, dava agli enti territoriali larga autonomia finanziaria, sia sul versante delle entrate che delle spese. Nel 2009 si decise di tradurre nella realtà questi nuovi principi costituzionali, ricorrendo, però, ad una clausola di salvaguardia a tutela degli interessi da garantire in modo unitario: collegare il “fondo perequativo” apprestato dallo Stato – e previsto dall’art. 119 Cost. per “i territori con minore capacità fiscale per abitante” – ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m).
Così, dal punto di vista della finanza pubblica territoriale, il decentramento regionale fortemente competitivo voluto con la riforma costituzionale del 2001 sarebbe stato corretto in senso solidaristico, soprattutto nel campo dei diritti sociali. Il fabbisogno finanziario per l’erogazione delle prestazioni pubbliche costituzionalmente imposte, almeno nel loro “livello essenziale”, doveva essere assicurato in ogni parte del territorio, indipendentemente dalle risorse finanziarie che si sarebbe potuto reperire con l’imposizione fiscale (per così dire ordinaria) a livello locale.
Si decise, poi, che dal 2013 in alcune “macroaree” – la sanità, l’assistenza e l’istruzione – iniziasse il procedimento di monitoraggio e di valutazione dell’efficienza e dell’appropriatezza dei servizi offerti. E ciò sia per determinare il “livello del servizio” da erogare in tutto il territorio nazionale, sia per calcolare i livelli essenziali delle prestazioni e il relativo costo standard in modo da assicurare in concreto l’“avvio del percorso di graduale convergenza verso i costi standard” (art. 15, comma 1, del d.lgs. 68/2011).
Questo percorso si sarebbe dovuto realizzare entro cinque anni, prevedendosi che, nel primo anno di funzionamento del fondo perequativo (da alimentare mediante un’apposita compartecipazione regionale all’Iva), nei predetti settori le spese si sarebbero dovute computare in base ai valori della spesa storica e dei costi standard “ove stabiliti”; nei successivi quattro anni, le spese sarebbero dovute gradualmente convergere verso i costi standard.
Cosa è successo negli anni successivi? Quasi subito, per un verso, il processo si è fermato e, per altro verso, non si è tradotto nella determinazione dei “veri” costi standard, quelli cioè connessi al livello di servizio pubblico da erogare ovunque, su tutto il territorio nazionale, in condizioni di efficienza ed appropriatezza. Diversamente, l’ammontare complessivo delle risorse rese disponibili a livello nazionale (e che vengono poi assicurate e trasferite a livello territoriale) continua ad essere calcolato sulla base dell’evoluzione della spesa storica, che è stata più o meno corretta – in genere verso il basso, salvo saltuarie inversioni di rotta – secondo le più varie metodologie che tengono conto di alcuni riferimenti della spesa considerati particolarmente rappresentativi. Ciò è avvenuto nella sanità, fatto salvo quanto, a seconda delle politiche regionali concretamente adottate, è stato correttamente stabilito in sede regionale, allorché si passa alla determinazione del finanziamento da attribuire ai soggetti che erogano direttamente le prestazioni. Nel campo dell’assistenza sociale (con il fondo nazionale per le politiche sociali) la determinazione e la ripartizione delle risorse segue sempre l’evoluzione della spesa storica, seppure ispirandosi formalmente al concetto dei livelli essenziali delle prestazioni.
Ben poco, poi, è avvenuto nel settore dell’istruzione. Più esattamente, un settore direttamente coinvolto è quello dell’istruzione e formazione professionale. Qui, però, la determinazione del costo standard è rimessa alle singole Regioni che, anche utilizzando quanto consentito dalla normativa europea in tema di finanziamento di servizi pubblici erogati da soggetti accreditati, hanno escogitato le più diverse metodologie di calcolo, tutte però fondate sulla spesa storica. Per di più, a livello nazionale, non sussiste alcun criterio uniforme di calcolo e sono rimaste inascoltate le voci di chi ha ripetutamente chiesto allo Stato e alle Regioni di giungere ad un accordo in tal senso. Sicché non si sono affatto ridotti gli squilibri tra le diverse zone del territorio nazionale. Soltanto negli specifici ambiti dell’istruzione professionalizzante ove la governance è statale – come gli Its – i cosiddetti costi standard sono stati stabiliti secondo metodi uniformi, ma sempre basandoli sulla spesa storica.
Per quanto riguarda la scuola, poi, si continua a non dare risposta alcuna alle richieste provenienti da chi, considerando la sempre più difficile situazione delle paritarie, ritiene che il calcolo dei veri costi standard consentirebbe di assicurare effettiva equità e vera parità di condizione agli stessi studenti. Circa l’università, una parte del fondo ordinario di finanziamento è determinata secondo cosiddetti costi standard, ma anche in questo caso il procedimento di calcolo è viziato dal ricorso ad una (peraltro, in sé e per sé, assai discutibile) metodologia che si fonda sempre sulla spesa storica. Sicché ne risulta radicalizzato, e non certo ridotto, lo squilibrio nel finanziamento tra le università, per lo più a danno di quelle umanistiche e di quelle collocate nel Centro-Sud. Come se l’istruzione di grado più elevato debba essere garantita dallo Stato soprattutto a chi si occupa di campi di studio “economicamente” produttivi, e per di più in quei territori che sono già più avvantaggiati.
È evidente che senza una vera e propria rivoluzione allo stesso tempo culturale ed istituzionale i veri costi standard rimangono una chimera. Quelli attualmente utilizzati sono, al più, una maschera che non consente di svelare le inefficienze e, in ultima analisi, la corruzione, né di comprendere appieno lo spreco e la scorretta distribuzione delle risorse pubbliche sul territorio nazionale. Molti tabù andrebbero sfatati. Abbiamo le competenze per affrontare la sfida, e non mancano enti o istituti di ricerca affidabili cui attribuire questo compito. Eppure, si continua a preferisce lo status quo, peraltro ammantandolo con algoritmi che non incidono davvero sui processi di determinazione della spesa pubblica, e che anzi, in spregio al principio democratico, risultano incomprensibili ai cittadini. I diritti sociali, previsti dalla Costituzione, non consentono che il perseguimento dell’efficienza si trasformi in un efficientismo forzato che riduca le garanzie, ma, al contrario, esigono che “gli ostacoli di ordine economico e sociale” (di cui parla l’art. 3 Cost.) siano rimossi, in modo omogeneo e senza sperperi di risorse, su tutto il territorio nazionale, a prescindere da chi (Stato o Regioni) sia titolare delle competenze, e da chi (soggetto pubblico o privato, convenzionato o accreditato che sia) fornisca le prestazioni pubbliche. Senza servizi pubblici equamente distribuiti e correttamente finanziati, non c’è coesione sociale, ma solo la legge del più forte.