L’inizio dell’anno scolastico è stato mediaticamente (ma non solo) segnato da alcuni avvenimenti che hanno monopolizzato l’attenzione nelle ultime settimane. Tra questi, la vicenda del crocifisso nelle aule e la manifestazione del Friday for Future che ha coinvolto studenti, alunni e insegnanti nella protesta di Greta Thunberg. Trovandomi in Bretagna con degli studenti, ho seguito le notizie e questi scambi di opinioni tra amici e colleghi attraverso le chat di whatsapp. Che, come ben sappiamo, costituiscono uno strumento di comunicazione rapida e carica di informazioni “inoltrate”. Il “frame” o la cornice mediatica ripetuta da molti articoli è quasi sempre quella di stabilire se essere pro o contro.



La circostanza particolare di essere all’estero insieme agli studenti ha acuito in me l’attenzione verso il modo che abbiamo di affrontare l’alterità di cui chiunque stia all’estero fa subito esperienza, dalla lingua al cibo. E l’ottimo burro bretone può essere… un po’ invadente.

E in effetti mi rendo conto che la modalità con cui si affronta l’altro da sé rivela qualcosa di interessante: le cose accadono e io ci devo fare i conti. Ma il come non è automatico. E non tutte le modalità sono un fare i conti con la realtà.



Che significa farci i conti? Non certo mettere un like (anche ben argomentato) o no. Schierarsi pro o contro espone al rischio che – come accade secondo alcuni algoritmi dei social – io mi chiuda in una camera di risonanza dove alla fine mi ritroverò a guardare solo me stesso. E dunque non farò mai i conti con ciò che accade ora. Non fosse altro perché davanti ciò che accade ora non ho fatto neanche la fatica di fermarmi a chiedere “cosa sta succedendo?” e lasciar spazio alle domande, paure, crisi che sono la mia domanda, la mia ferita ora. E che solo possono rendere autentiche le mie domande in una ricerca di ciò che ha senso, ora.



Il bisogno che abbiamo veramente qual è? A che (mi) serve l’ansia di dimostrare una posizione che nasce “prima” del rapporto drammatico, hic et nunc, con l’altro? A dimostrare che so già tutto? E questo basta a soddisfarmi? Che fine fa la mia ferita? Quando eravamo bambini e ci sbucciavamo le ginocchia chiamavamo mamma e papà.

Allora ci vuole uno più grande. C’è sempre bisogno del rapporto con un maestro, qualcuno che mi in-segni, mi mostri che, ora, vale la pena chiedersi: cos’è il crocifisso? Chi è Greta? Cosa attrae i ragazzi in piazza? Cosa cercano veramente? E io? Ogni volta che nella vita ho avvertito una “rottura” davanti a qualcosa, a qualcuno, un collega, un alunno, un amico – e mentre scrivo solo la discrezione mi impedisce di rivelare i volti e le situazioni che la memoria fa scorrere nella mia mente, dalle più banali alle più dolorose – chi mi ha aiutato non è mai stato chi mi ha detto “loro/lui, lasciali perdere, non capiscono nulla, il mondo è cattivo, meno male che ci siamo noi”. L’aiuto di cui resto grata è stato sempre di qualcuno che non mi ha fatto sconti sull’urlo che mi sorgeva in cuore, ossia mi ha rimesso davanti la responsabilità della domanda che c’era in quell’urlo, perché la risposta che ora dovevo cercare doveva rispondere a quella domanda e non consolarla. Altrimenti come avrei potuto ri-guardare i miei figli? Dire loro che prima o poi avrebbero scoperto che il desiderio di felicità che hanno è una condanna, perché non serve a nulla visto che tutto quello che penso possa soddisfarlo crolla? Se uno incontra un’alternativa, fosse anche per i propri figli, la segue.

Un maestro che mostri (e non di-mostri) che è possibile – come diceva san Paolo – vagliare tutto e trattenere ciò che vale o, come diceva Terenzio, “nihil quod est humanum a me alienum puto”. E che, come diceva Sant’Agostino, “il segno della verità è che ti fa godere”. A quel punto, per qualcosa che adesso scopro vero, e che mi corrisponde perché è ancora vero, potrò paragonarmi con tutto e, non per moralismo ma per gratitudine, amare le montagne, custodire i fiumi e l’aria, i faraglioni di questa splendida regione che è la Bretagna e che ora è “mia” come la Sicilia. E potrò abbracciare Greta e dirle che amare la terra non è una modalità automatica e ovvia di starci, sulla terra. Che il cambiamento può iniziare da uno che è vivo e cambiato, da un rapporto che – drammaticamente – mi educa perché mi salva da ciò che è meccanico. L’imperativo categorico non tiene. E la speranza per ciò che lei ama c’è, scopriamola insieme, perché io ne ho ancora bisogno.

Anche Greta, se non le metto subito l’etichetta di “gretina”, posso “vederla” chiedendole “chi sei? Che cerchi?” e sentire il suo urlo e chiedermi “io, come rispondo al tuo urlo?”. Come quello dei miei studenti che, cercando disperatamente la pasta in Francia, in fondo cercano casa.