Nei giorni che segnano il passaggio tra l’anno vecchio e il nuovo, il tempo, anche quello della scuola, seppur comunque incalzato da diverse scadenze, sembra avere una breve sosta, utile ai bilanci e alle riflessioni. Viene allora naturale farsi qualche domanda e soprattutto lasciare spazio a quegli interrogativi che vanno al cuore della vicenda, spesso lasciati sopiti dall’incalzare delle urgenze.
Che anno è stato? Quale sensazione ci lascia dopo qualche giorno che se n’è andato? Se lo dovessi riassumere in una sola parola, direi che è stato il tempo della fragilità.
Fragilità che si è manifestata come insicurezza sulla possibilità di fare scuola in presenza o a distanza, ma soprattutto fragilità dell’io, di tanti io, che si sono lasciati alle spalle il loro ego sfrenato, le loro vere o presunte sicurezze, erose da una pandemia che sembra non avere fine.
Mentre per diversi studenti, ma anche per alcuni adulti le incertezze sono diventate patologie, difficili da risolvere, per tutti è emersa la necessità di fare i conti con un’umanità ferita, con una domanda di senso incalzante, resa potente dalla caduta di presunte certezze. La consueta routine si è rotta, trascinando con sé la supponenza di un io che si sentiva padrone del suo destino. Come ha risposto la scuola a questa nuova realtà e come può continuare a rispondere?
Direi innanzitutto accogliendo la fragilità, non negandola, ma interrogandola. La grande letteratura, le intuizioni e scoperte dei geni dei diversi ambiti del sapere non nascono da personalità soddisfatte, da ego ipertrofici e arroganti, ma da uomini e donne consapevoli dei loro limiti, curiosi e sempre insoddisfatti, perché coscienti che la strada della conoscenza avviene per continue approssimazioni e non conosce fine. Lo ricorda Shakespeare: ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua filosofia.
La fragilità è espressione di una corretta posizione davanti al reale: l’uomo, riconosciuto il proprio limite strutturale, è destato alla curiosità e al desiderio della conoscenza. La fragilità dunque non può che essere la benvenuta tra le mura della scuola, perché favorisce nella persona un atteggiamento di apertura verso il reale.
La letteratura, la scienza, l’arte e le altre discipline consentono di comprendere che la fragilità dell’io, la sua domanda di senso, non sono espressioni di debolezza, ma di verità e quindi di possibilità di inoltrarsi in una conoscenza appassionata, non nominalista e astratta, ma piena di umanità e di senso.
Nulla è più motivante allo studio di questa consapevolezza che cresce nel tempo e alla quale si è progressivamente guidati da adulti esperti e appassionati. Come ricorda Daniela Lucangeli, il vero maestro sa vedere nella vulnerabilità una risorsa per la comprensione del mondo e una strada per la valorizzazione del talento e del destino di un giovane: “Il suo sguardo ha visto le potenzialità del mio, di chi vuole studiare, capire per aiutare davvero, ed è così che, forse senza accorgersene, mi ha spinto a trasformare la mia vulnerabilità in forza”.
La fragilità diviene allora continuo appello alla crescita dell’umano e non prigione per l’espressione della personalità.
Vulnerabilità che rende capaci di costruire relazioni nuove, libere da affermazioni di potere e da giochi di rivalsa, anche all’interno della scuola dove spesso si è tentati, per far emergere le potenzialità degli studenti, di sollecitare la competizione e la sfida, pensando che l’intelligenza e la passione dei ragazzi possano alimentarsi con l’emulazione del più bravo e del più determinato.
In realtà l’avventura della conoscenza non è l’impresa di un ardito solitario, che si fa strada ignorando gli altri, quanto un’avventura condivisa, un’esperienza di relazione. È la memoria della comune condizione di debolezza, finitezza, sofferenza che costituisce la vera base del legame sociale, ci ricordano Giaccardi e Magatti, in uno dei loro libri in cui raccolgono riflessioni su quanto l’esperienza tragica della pandemia potrebbe insegnare alla società odierna.
Le grandi conquiste della conoscenza sono opere condivise lontane da esasperanti protagonismi. Un io consapevole del proprio valore riconosce la positività dell’altro e lo accoglie come risorsa per la propria crescita. Si tratta di una concezione della persona che non trova grande ospitalità nelle nostre scuole, più facilmente luoghi di affermazione individualista. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro quanto al sapere sia connesso il valore della relazione: si impara insieme, con il contributo di tutti e grazie alla guida di sapienti maestri. Quando la conoscenza è intesa come alta sfida della ragione e insieme dell’affezione è un’impresa solidale, costruita insieme con l’apporto di tanti io, che accettano di essere fragili.
Analogamente i docenti riconoscono il valore della collegialità solo se si liberano da falsi e ipertrofici protagonismi e, accogliendo la fragilità come dimensione caratterizzante dell’io, ricercano modalità condivise di lavoro e di proposte per i loro studenti.
Divengono allora maestri appassionati, capaci di far entrare i ragazzi nelle “botteghe” del loro mestiere, per introdurli nella disciplina che insegnano, consapevoli che la conoscenza non è un cammino diritto e preordinato, quanto un sentiero in cui l’errore è ammesso e valorizzato e dove le tappe sono spesso raggiunte lasciando spazio all’imprevisto.
Perché dunque soffermarsi a riflettere sul senso della fragilità a scuola?
Perché il riconoscimento della fragilità come espressione strutturale dell’io aiuta a comprendere che la scuola non ha come unica ed indiscutibile finalità la promozione e la crescita degli apprendimenti, pur essendo questa la sua vocazione istituzionale, ma suggerisce che c’è anche altro. La scuola è chiamata infatti a promuovere l’educazione integrale della persona, in tutte le sue dimensioni, senza fermarsi a quella cognitiva. Le azioni e gli atti della scuola veicolano dunque naturalmente, in modo più o meno esplicito, una concezione dell’uomo, una antropologia.
Quale antropologia permea le nostre scuole? Potrebbe essere una domanda interessante e sfidante per un collegio docenti. La ricerca di una risposta non chiede di elaborare o di assumere una particolare ideologia, quanto di lasciarsi investire da un sano realismo, capace di guardare con verità gli studenti e gli adulti che si aggirano tra le aule e i corridoi delle nostre scuole.
Sono uomini e donne, bambini e bambine, adolescenti segnati da una fragilità che da sempre è al fondo dell’esperienza dell’umano, ma che la distrazione e la presunzione di anni, segnati dall’affermazione di un ego nemico dell’alterità, ha cercato di occultare.
La pandemia ha squassato questa falsa presunzione di certezze e ha rimesso al centro un io che accoglie la sua fragilità, come condizione ineliminabile dell’esistenza e dell’avventura della conoscenza.
La scuola allora diventa un luogo della cura, non nel senso della medicalizzazione di ogni difficoltà, ma come espressione di un’attenzione alla crescita della persona nella sua integralità. Crescita che ha bisogno appunto di continui gesti di cura, non per rendere più facile il cammino, ma per sostenere la responsabilità di ciascuno.
In questo contesto la fragilità diventa una grande risorsa, come ci ricorda in modo magistrale il grande psicanalista Eugenio Borgna. Ma a questa fragilità, che è stata naturalmente considerata un handicap, vorrei forse attribuire la mia inclinazione a non essere fino in fondo sicuro delle mie idee e delle mie azioni, e a cercare di immedesimarmi nel limite del possibile nelle idee e nelle azioni degli altri, nella loro interiorità.
La fragilità diviene allora risorsa per l’acquisizione di una sapienza che supera l’intellettualismo e il personalismo e genera personalità capaci di trovare il loro posto nel mondo.
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