Ma come, dobbiamo parlare ancora delle competenze? In questa situazione così particolare? Questo ho risposto ad una collega che mi chiedeva chiarimenti sulle competenze. Poi ho ripensato alla questione, sollecitata anche da un articolo di T. Pedrizzi uscito su queste pagine che recensiva un saggio di nuova pubblicazione (Dai saperi disciplinari alle competenze, un testo collettaneo del Mulino) con un’introduzione di Luisa Ribolzi.



È vero che oggi il discorso sulle competenze è passato in secondo piano. Ha fatto però capolino con l’introduzione dell’educazione civica. Sì, perché in tempo di lockdown, i docenti hanno dovuto districarsi anche nei cunicoli burocratici di una nuova disciplina! Rispetto alla quale, si potrebbe dire che l’ultimo dei problemi dei docenti è “insegnarla” (ma non sarebbe meglio dire “farla vivere concretamente”?), mentre il primo è piuttosto orientarsi nei tentacoli della burocrazia trasteverina, che ha implicato: la ri-stesura del curriculum d’istituto e la messa in atto del  farraginoso protocollo che prevede la ricerca di un insegnante tutor, che raccoglie le indicazioni di voto dei colleghi implicati, proponendo il voto finale in sede di scrutinio. Ecco, se la competenza è questo percorso fatto di ostacoli e di equilibrismi buro-didattici, ben venga che non si parli più di competenza.



Ma se – invece – come scrive Tiziana Pedrizzi e come ricorda Luisa Ribolzi, la “frantumazione delle materie senza dialogo porta alla insignificanza” e che “è limitante intendere le competenze solo in chiave strettamente funzionalistica in direzione del lavoro”, benvenute le competenze.

Anzi, benvenute proprio in questo momento di lockdown e di didattica a distanza. Che sia veramente arrivato il momento in cui possiamo utilizzare una didattica più libera e creativa, più efficace e significativa, non più con il fiato sul collo (chissà poi il fiato di chi!) del programma da finire? Che sia veramente giunto il momento in cui, senza più orpelli burocratici e protocolli labirintici, possiamo attivare in modo – direi quasi – inconsapevole, cioè naturale, una didattica che punti alle competenze, siano esse disciplinari, di cittadinanza o soft skill?



Perché parlare di competenze significa – nella mia esperienza – pensare ad un insegnamento/apprendimento che diventa un’esperienza dello studente e del docente, dello studente con il docente e viceversa.

Ora che siamo (perlomeno nella scuola superiore) in Dad, che cosa significa attivare una didattica per competenze? Non certo mettersi a progettare con fatica e in modo artificioso percorsi (o Uda), ma guardare globalmente la situazione, il nuovo – strano – setting: certo, mancano gli sguardi degli studenti, ma forse occorre rimettersi nella posizione di quando, come docenti, eravamo in classe: di là dal mio schermo ci sono i miei alunni: come faccio a ricercare una relazione, e una relazione fruttuosa con loro?

E allora, è possibile sprigionare la creatività del docente: dalla semplice lezione che conducono gli alunni al posto dell’insegnante, all’utilizzo delle foto che testimoniano che, anche da casa, si può vedere (e scoprire) il mondo; dal reportage personale di un fatto accaduto, alla testimonianza ascoltata tutti insieme – docenti e discenti – (mai come ora i collegamenti sono semplificati), di uomini grandi che ci documentano oggi, dal vivo, che anche in un mondo così malconcio, la speranza è possibile.

Si possono incontrare personalità o uomini comuni, dai politici agli scienziati, dai medici a volontari; e spaziare per il mondo, da New York al Kenya. Quindi è possibile incrementare i rapporti, non defalcarli o rarefarli. Oppure si potrà svolgere una semplice lezione insieme con altri colleghi; e persino assistere a una testimonianza diretta – e ineditadi genitori o parenti che portano la loro esperienza just in time.

Allora lo schermo non è più un corpo inerme, e i ragazzi – relegati dietro ai loro schermi, come non raramente lo erano dietro ai loro banchi – possono a loro volta “esserci”, essere presenti: recitando Montale, discutendo con un magistrato, interloquendo con un medico o semplicemente discutendo in classe con i compagni e con i docenti, e così via.

E la vita irrompe e buca lo schermo. E le discipline si contagiano.

Dimenticavo: lo studente che interloquisce, che discute, che presenta una parte del programma, che ricrea una sceneggiatura di una novella di Boccaccio, che spiega ai suoi compagni come ha svolto un problema… un ragazzo che si mette in moto, che dimostra (o non dimostra) creatività, interesse, conoscenze, serietà, competenza… appunto ha espresso – anche dietro lo schermo inerte e inerme un’azione non più statica e passiva ma viva: ha preso le sue conoscenze, i suoi interessi, la realtà e li ha fatti diventare una sua esperienza. Ha mostrato la “sua competenza”. E come docenti abbiamo potuto vederlo, entrare in rapporto con lui, anche se in modo nuovo e diverso rispetto alla presenza reale.

Chissà – veramente – se questa può essere la situazione propizia per rincominciare a sperimentare la competenza come opportunità, come un allargamento di sguardo, come uno strumento per rivedere negli occhi i nostri studenti; anziché continuare a temerla – e subirla come un nonsenso imposto dalla burocrazia ministeriale.