“Non si trova bene”. Questo Il mantra che per tutto agosto viene costantemente pronunciato nelle presidenze e nelle segreterie delle scuole. Genitori, più preferibilmente madri, che con spilungoni di 1,80 (preferibilmente maschi) implorano di accogliere il ragazzo (o più raramente la ragazza) perché nella scuola finora frequentata “non si trova bene!”. A questo punto è consuetudine che le scuole chiedano agli interessati le pagelle e di fronte a risultati di norma non brillanti si trincerino dietro la formula “ci spiace, non c’è posto”.
Più raramente comincia il maldestro tentativo di confrontare i piani di studio e di organizzare eventuali esami integrativi. Ci sono istituti, i più blasonati, che per tradizione non accolgono studenti di altre scuole, altre che si sforzano di rispondere alla richiesta con un notevole dispiego di energie.
Spesso, non sempre ma spesso, questi cosiddetti riorientamenti non producono l’effetto sperato e si traducono in nuovi insuccessi, con il ricorso finale nella ricerca di istituti (chiamarle scuole è eufemistico) che almeno a parole assicurano il certo recupero degli anni perduti (anche tre anni in uno, assicurati!).
Quanto denaro, quante risorse mal spese! Dal punto di vista didattico e organizzativo il sempre più frequente cambiamento di corso dice della necessità di ripensare in maniera meglio strutturata i piani di studio e il percorso orientativo.
Questa generazione di studenti e di genitori ha forse bisogno di più tempo per maturare una decisione “per la vita” e da qui la necessità (che peraltro già la cosiddetta Legge Moratti aveva introdotto) di favorire i passaggi all’interno dell’obbligo scolastico o addirittura di costruire un curriculum obbligatorio comune, integrato da materie opzionali.
Mi immagino già le obiezioni di tanti docenti tenacemente arroccati ai programmi, scandalizzati dal rischio di “perdere ore”. Ma forse è arrivato il momento di ripensare davvero i curricula. La scuola così come l’abbiamo conosciuta dal secondo dopoguerra non tiene più!
L’aspetto più drammatico del sempre più frequente cambiamento di percorso è tuttavia, a nostro parere, di natura educativa. I nostri ragazzi, prevalentemente proprio i “nostri”, quelli di origine italiana, sono sempre più fragili e i genitori più di loro. I ragazzi di origine non italiana appaiono almeno fino ad oggi più temprati e i loro genitori meno preoccupati, impegnati come sono col pane quotidiano.
Va anche sottolineato come molti di loro, per pregiudizi di carattere orientativo, o per reali particolari attitudini tecnico-pratiche, vengono iscritti agli istituti professionali, che, pur con tante criticità, hanno da tempo adottato una didattica di norma più inclusiva.
Quel “non si trova bene” è un’espressione che ci interroga in maniera decisiva. Dice di un’attesa delusa: io, studente, avevo tanti desideri che non si sono avverati (i compagni antipatici, le materie difficili, i docenti noiosi) ed io, genitore, di fronte a questa sofferenza (soprattutto se sono da solo ad accompagnare questo adolescente che non riconosco più), non riesco a tollerare il suo disagio, il suo malessere e quindi “signori, si cambia!”.
Di solito il cambiamento non risolve, anzi esaspera il disagio. È pertanto essenziale che i genitori siano costantemente confortati e aiutati a recuperare l’energia per stare di fronte alla sofferenza dell’adolescenza, ricordando, per esempio, che la fatica e i problemi costituiscono la norma e non l’eccezione dell’umana avventura. A costo di far trapelare nell’analisi un certo cinismo, credo che sia a tutti chiaro come questa situazione produca una pericolosa deriva, anche di natura economica.
E allora? Allora si confermano sottolineature già più volte affrontate su questo giornale.
Il lavoro dell’insegnante deve ridiventare uno dei lavori più stimati (e coerentemente meglio retribuiti), deve essere affrontato da persone ben preparate e appassionate, capaci di piegarsi sul bisogno di chi si ha di fronte, con un’energia umana e professionale in grado di suscitare interesse, almeno per far staccare per qualche istante lo sguardo dal display.
I ragazzi che dicono “non mi trovo bene” per lo più riferiscono anche di aver colto nei docenti una preoccupazione prevalentemente trasmissiva e valutativa e poco altro. Eppure tanti lettori del Sussidiario sanno che è ancora possibile generare luoghi dove l’apprendimento accade in una relazione autorevole.
C’è bisogno che il decisore politico ripensi ai piani di studio, favorendo l’autonomia delle scuole, ma che guardi anche a un modello di sviluppo della conoscenza che non può essere quello di 50 anni fa. E non parlo solo di AI, di cui pure è corretto parlare. Non mi riferisco nemmeno ai pur giusti investimenti relativi agli Sportelli psicologici. I concorsi che si stanno svolgendo in questi mesi non sembra vadano in questa direzione! Ancora tantissimo nozionismo, tantissima teoria, anche di natura pedagogica e pochissima attenzione alla peculiarità dell’essere insegnante oggi.
In sintesi: c’è un enorme bisogno di una vera alleanza educativa fra docenti e genitori, capace di sostegno reciproco e soprattutto capace di affrontare con energia la debolezza di questa generazione di ragazzi, fragilissima, indicando tenacemente la convenienza dell’esperienza nella conoscenza. E c’è bisogno di giovani appassionati che scelgano l’insegnamento con convinzione e non come seconda o terza scelta.
Non multa sed multum! Solo così la scuola potrà ridiventare un luogo dove l’io possa sperimentare certamente la fatica, ma anche una convenienza umana che lo spinga a restare e non a fuggire.
Sempre di più l’insegnamento dovrebbe costituire un’autentica vocazione e non un semplice impiego. E non si tratta di retorica, ma di realistica analisi dei bisogni dei nostri ragazzi e della fragilità di un sistema e di un capitale umano che faticosamente continuano ad arrancare.
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