Caro direttore,
tutti devono sapere che l’insegnante è un dinosauro.

Non indugio sulla specie, per quanto mi pare evidente che non si tratta certo di un temibile e possente superpredatore, con file di denti aguzzi; piuttosto me lo figuro come un esserino gracile che si nutre di avanzi, nel costante terrore di essere divorato da creature infinitamente più grandi e forti.



È un dinosauro perché è in via d’estinzione. E la pandemia di Covid è stato il meteorite che ha vibrato il colpo ferale, lasciando un cratere ancora fumante.

Qualche esemplare sopravviverà ancora, fors’anche per decenni, tirando a campare, ormai incapace di sostenere la sua esistenza, in un mondo divenuto per lui grigio e freddo. Ma non dubiti, il suo destino è già stato deciso: non c’è più spazio sul pianeta che lo possa accogliere.



Peccando di deformazione professionale, le potrei spiegare il motivo partendo dai greci e dai romani, dal concetto di paideia a quello di auctoritas, passando poi per un lungo e (temo solo per me) affascinante percorso attraverso il trivio e il quadrivio, l’umanesimo e il rinascimento, l’illuminismo e il razionalismo… Ma forse è meglio lasciare questo tipo di predicozzi ai miei sventurati studenti.

 In sintesi e in pratica, dunque, le dico semplicemente che no, non serviamo più.

Innanzitutto, per una banale ragione contenutistica. Il paludato gentiluomo che iniziava dei tremanti fanciulli al sacro tempio del sapere, il sadico maestro dickensiano che ci dava giù di punizioni corporali per titillarsi con una fugace sensazione di potere, il rivoluzionario che, con il suo maglione blu stinto sobillava gli studenti ad opporsi al sistema… Modelli diversi, finanche opposti, ma tutti avevano una cosa in comune. Erano gli unici, o quasi, tenutari della conoscenza, per i loro pargoli.



Erano enciclopedie viventi. Erano la verità incarnata. Per l’amore del cielo, capitava, eccome (e fortunatamente) che poi gli alunni scoprissero a un certo punto come non fossero poi così tanto questa fantomatica verità incarnata. Ma fintanto che erano in classe, i miei augusti predecessori erano entità arcane, semidivine.

Non mi fraintenda, non rimpiango i tempi (che nemmeno ho vissuto, a dirla tutta, ma ça va sans dire) in cui l’educazione non era un diritto, ma un privilegio. Certo è però che al giorno d’oggi per sbugiardarci ci vogliono al più qualche decina di secondi.

Forse i professori di oggi sembrano molto più ignoranti di quelli dello scorso secolo, ma loro non avevano l’impari concorrenza di wikipedia. Un po’ come il panettiere che da un giorno con l’altro si trova dall’altro lato della via un gigantesco supermercato. Io, onesto fornaio, posso sgolarmi a dire che da me il pane non è industriale, che è più buono e genuino, che è fatto con le mie manine e con tanto amore secondo la ricetta di mammà… Ma alla lunga non ci può essere partita, suvvia.

Tanto peggio: si pretende da noi di combattere questa battaglia ad armi pari, di essere più supermercato e meno negozio. Il che, di fatto, è disperatamente impossibile.

Ci si chiede di spacciare come brand distintivo della scuola un becero aziendalismo e un altrettanto becero proceduralismo. “Tranquillo, ragazzino, ti faremo fare cose che servono davvero nella vita! Ti faremo fare cose utili per la tua carriera!”.

Non so cosa mi faccia stare peggio: se essere costretto a giustificare l’esistenza di un’ora di lettura e analisi della Divina Commedia dicendo che è “utile”, o mentire (sapendo di mentire) a degli adolescenti.

La maggior parte di noi si trincera dietro a un vago “historia magistra vitae” o un “Pierino, dai retta a me, ti allarga la mente”. Non dico che sia falso, che allarghi la mente, ma queste parole, appena ci escono dalla nostra bocca, già puzzano di stantio e putrefazione.

A un certo punto non ce l’ho fatta più e ai miei studenti l’ho confessato, manco fossi un bigamo al cospetto del papa: ragazzi, storia non serve a niente, filosofia non serve a niente, inutile dirci balle.

Ma siamo così sicuri che tutto nella vita debba per forza avere una utilità pratica? Insomma, non è che sul balcone io tengo un’orchidea perché innanzitutto ho letto il libro di Greta e voglio contribuire alla biodiversità planetaria. Tengo quello stupendo fiore perché è bello. Punto. Fine. Stessa cosa Dante. O Leopardi. O Kant. Queste cose le insegno perché ne sono affascinato. E credo sia importante trasmetterle perché altri ne siano affascinati. Niente di ideologicamente complesso.

Ecco, in questo senso, gli autori citati “servono”. Servono a non fare di Sophie, Jodie, Vittorio, Cinzio, Micaela, Tommaso o Nicla degli ingrigiti ragionier Fantozzi. A imparare a curare quella maledetta orchidea sul balcone. Sarà anche uno “sbattimento”, come dicono loro, dovergli dare da bere tutti i giorni, ma quando fiorisce, cavolo, è uno spettacolo.

Ma non è solo internet. Non è soltanto uno Stato che ci vuole teleimbonitori che offrono un cappellino in omaggio ai nostri primi cento alunni. È peggio, molto peggio di così.

La ragione più profonda è che la fine del concetto di verità equivale, sistematicamente, alla fine del ruolo – anzi, della vocazione – di educatore. È una questione di pura logica, nemmeno troppo complicata, in fondo. Se la verità è soggettiva, chi è quel vecchio rintronato che siede alla cattedra per permettersi di insegnare a me?

Detto in termini più aulici, ora come ora un professore deve innanzitutto convincere chi ha davanti che vale la pena starlo a sentire. Un po’ come se il povero disgraziato che passa le giornate a inoculare il vaccino Pfizer dovesse vincere con tutti i suoi pazienti uno scontro dialettico per persuaderli a farsi la benedetta iniezione.

Le fake news e i vari terrapiattismi sono, del resto, i segni dei tempi: anche solo vent’anni fa, la sacralità della “verità scientifica” era ancora intoccabile. Adesso, neanche più quella. L’uomo moderno non accetta che qualcun altro gli dica che se mette la mano sul fuoco si scotta. Chissà, magari chi gli dice che scotta è uno assoldato dai poteri forti del nuovo ordine mondiale ebraico-massonico-rettiliano che non vuole che lui scopra che se lo fa vivrà in eterno!

L’onda lunga di questo atteggiamento di scetticismo iperbolico già si mostra nella scuola, specificatamente nel rapporto tra genitori e insegnanti. Finiti i tempi del “lei non sa chi sono io” se provavi a dare quattro al figlio del commendatore, ora siamo arrivati al “cosa ne sa lei se quello che dice mio figlio è giusto o no”. Non so, non escludo a priori che l’italico corpo docente sia soggetto a una tara mentale che gli impedisce di cogliere le altrui doti, ma mi sembra statisticamente improbabile che siano tutti dei geni incompresi, i nostri alunni.

Tentiamo, timidamente, di difendere il nostro essere onesti lavoratori nella vigna della scuola, sottolineando che il fallimento, a volte, è altrettanto educativo del successo, se ne vengono evidenziate le motivazioni. Ma il fallimento, socialmente, economicamente, antropologicamente, noi moderni non lo tolleriamo più, come non tolleriamo la fatica, del resto.

Chi ha più diritto di dirci che sbagliamo? Anche perché tanto abbiamo internet. Nel suo caldo abbraccio troveremo di sicuro qualcuno che ci darà ragione. Qualcuno che ci mostrerà le inconfutabili prove che siamo gli unici padroni di noi stessi e che gli altri, tutti gli altri, sono al mondo per negarci la libertà di fare e di essere quello che vogliamo.

Qualcuno che ci insegnerà a prendere le armi per difenderci dai soprusi di chi vuole inculcare una verità che non esiste.

Noi dinosauri, caro direttore, in un mondo così che ci facciamo?

Ma non posso concludere senza atteggiarmi al più classico degli stregoni dei film fantasy di serie Z, lanciando profetiche maledizioni: dopo l’estinzione dei dinosauri, prima di arrivare all’uomo ci sono voluti altri 65 milioni di anni. Siete sicuri di voler aspettare così tanto?

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