Non è ancora chiaro se saremo mai in grado di recuperare il danno – economico, materiale, culturale – che si è prodotto per le nuove generazioni con la pandemia. Non è un tema su cui si può perdere tempo a dibattere. Ogni discussione seria dovrebbe lasciar parlare i numeri e le cifre segnalano – senza possibilità di smentita – la dimensione della catastrofe. In un solo anno nel mondo si sono gettati via 112 miliardi di giorni di istruzione. L’impatto sul resto del secolo è calcolato dall’Ocse e dalla Banca mondiale in un punto e mezzo di Pil. Un macigno sul futuro dei giovani in ogni angolo della Terra.



Ovviamente non tutti hanno pagato – meglio dire non stanno pagando – in maniera uguale questo tributo. È facile immaginare che dov’è più estesa la povertà è stata più marcata la perdita e più forte risulterà il danno in futuro. Una conferma dell’esistenza di questa tendenza anche nel nostro paese viene dal recente studio di Save the Children sui dati dell’effettiva presenza nelle scuole di diverso ordine e grado in 8 città italiane.



Scopriamo così che per quanto riguarda la scuola per l’infanzia i bambini di Bari sono riusciti ad andare a scuola 48 giorni su 107, mentre i loro coetanei di Milano hanno goduto di tutti i 112 giorni di apertura. La cosa non cambia per i ragazzi delle medie. A Napoli sono entrati in aula 42 giorni su 97, mentre a Roma ci sono riusciti 108 giorni su 108. Non è andata meglio ai più grandi delle scuole superiori. Mentre a Reggio Calabria in un anno essi hanno fatto lezione in presenza per soli 35 giorni su 97 ai loro coetanei di Firenze è toccato di varcare il portone di scuola 75 volte su 106.



Qui non stiamo parlando della “didattica a distanza” ma della effettiva possibilità di riprendere l’attività in presenza quando l’andamento della circolazione del virus lo ha consentito.

Come possiamo interpretare questi dati? Quali problemi ci segnalano? Sicuramente deve aver inciso il grado di preoccupazione delle famiglie di provenienza. Al Sud le case sono popolate di nonni e la convivenza con i più piccoli può aver spinto a non andare a scuola anche quando era consentito. Ma più in generale il rientro in classe non è stata considerata una priorità allo stesso a modo a Milano o a Napoli. Fanno testo le posizioni assunte dai governatori De Luca ed Emiliano. Se il primo non ha voluto sentir ragioni e ha preteso la chiusura di ogni scuola di ordine e grado, il secondo ha addirittura lasciato salomonicamente decidere i genitori se portare i figli a scuola o lasciarli a casa davanti ad un computer.

Va aggiunto che non dappertutto si è combattuto allo stesso modo per tenere le scuole aperte, soprattutto quelle del primo ciclo. E qui invece la Dad c’entra e come! Non hanno giovato alla coerenza di questa scelta (spezziamo una lancia a favore della ex ministra Azzolina) la volontà di far coesistere i due sistemi, ad evidente danno di quello in presenza, l’unico che garantisce quella che dobbiamo considerare – ancor di più oggi – il “core business” della scuola, e cioè la “relazione”. Aver voluto mantenere sullo stesso piano i due strumenti ha generato un grave errore, per di più sostenuto anche da discutibili intese “sindacali” raggiunte a livello ministeriale che hanno assecondato le frange meno disponibili del corpo docente, come nel caso della soluzione raccapricciante delle “lezioni a distanza” con le “classi in presenza”.

Vi è una ragione di questa differenza che può essere ricondotta ad una situazione preesistente all’arrivo del Covid-19? Senz’altro sì e non conviene girarci tanto intorno. Che i ragazzi del Sud siano da anni svantaggiati rispetto ai loro coetanei di aree più ricche e fortunate per la quantità e qualità di offerta formativa è un po’ come scoprire l’acqua calda. Quello che colpisce oggi è che nella grande crisi pandemica questo svantaggio sia addirittura aumentato e in maniera considerevole.

Tra i motivi di questo acuirsi delle diseguaglianze vi sono sia le diverse condizioni di sostegno familiare che inevitabilmente devono sopperire alla chiusura delle scuole, sia la qualità della didattica a distanza e la precarietà del rapporto con l’istituzione scolastica, come l’assenza di un’edilizia scolastica degna di un paese civile. Senza contare cos’è successo “fuori” dalle scuole, e cioè ad esempio l’incapacità di offrire un servizio adeguato alla mobilità in sicurezza dei ragazzi o il cedimento di ogni tentativo di tracciamento del diffondersi dell’epidemia.

Nonostante le aspettative generate dal cambio di governo, la scuola italiana subirà un nuovo stop nelle prossime settimane. Segno ulteriore del fatto che la stanchezza per il protrarsi dello stato di emergenza genera insofferenze e critiche spesso immotivate. Sulla scuola non si scherza e il primo impegno deve essere in questa fase di proteggere i nostri ragazzi e il nostro personale docente, in gran parte all’interno di fasce d’età ad alta criticità.

Appena sarà possibile abbassare la guardia dovremo con serietà fare un inventario dei danni. È in quel momento che sarà necessario dire la verità, fare i conti con la tragedia del tempo scolastico perso e fare il possibile per recuperarlo. Ma sarà necessario anche cogliere le differenze e intervenire con soluzioni ad hoc, evitando di cadere nell’errore dei facili egualitarismi. Non ha molto senso – di fronte all’estensione di questo danno – far credere che la soluzione sia protrarre di tre settimane l’apertura della scuola a luglio. Se non faremo uno sforzo eccezionale per recuperare lì dove abbiamo perso di più, commetteremo un errore moralmente e socialmente imperdonabile.

In definitiva, ancora una volta occorre far appello alla coscienza profonda del Paese e tenere fuori la scuola dalla polemica politica, dalla contesa per qualche voto (o tessera sindacale) in più. Basta in fin dei conti guardare al valore assoluto che ha per ogni paese moderno per convincerci ad investire su di essa ogni nostra risorsa disponibile.

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