“Perché vuoi cambiare liceo?”

“Perché durante il lockdown mi sono sentito trascurato. Non è giusto, perché io sono … un ragazzo!”

Due battute di un colloquio per un trasferimento che hanno determinato la mia convinzione a riprendere a settembre la scuola in presenza, costi quel che costi!

“Trascurare” è un verbo composto che dice l’andare al di là (trans-) della “cura”, fino a negarla: non si è forse sentito dire da più voci che in fondo la didattica a distanza è funzionale all’apprendimento, che gli studenti della secondaria hanno sofferto meno perché messi in grado di essere comunque istruiti?



Addirittura non è infrequente sentir dire a studenti universitari che in fondo è possibile, e per certi aspetti preferibile, seguire le lezioni e fare gli esami online. I fuori sede risparmiano, ad esempio. Ma davvero si può pensare che i nostri giovani non abbiano bisogno di essere curati, cioè di essere presi in carico da adulti e compagni che ne coltivino desideri, domande, interessi? Davvero l’educazione può ridursi a istruzione, a passaggio di informazioni che devono essere metabolizzate e restituite in test, interrogazioni, esami? Se fosse tutto qui, non varrebbe la pena preoccuparsi tanto del ritorno a scuola in presenza.



L’altra parola del colloquio che mi ha profondamente interrogato è “ragazzo”. Evidentemente imbarazzato perché non riusciva a dare una motivazione sufficientemente convincente del suo diritto a essere preso in considerazione, è ricorso a questo sostantivo, apparentemente banale, ma dall’etimologia curiosa. Pare che il termine derivi dall’arabo raqqāṣ, nel Magreb “corriere che porta le lettere, la posta, o che conduce i viaggiatori, messaggero”. Un giovane dunque, a cui si iniziano ad affidare incarichi importanti; una guida per i viaggiatori, che conosce qualcosa del luogo più di loro, che si orienta in un certo spazio; un messaggero, che custodisce e trasmette qualcosa di prezioso. Ecco, negli occhi di quel ragazzo mi è parso di cogliere un’aspettativa infinita, un desiderio profondo di essere considerato e per un valore già conquistato e per una missione da compiere.



Tale desiderio vivo in molti nostri giovani è la molla per cercare indefessamente l’equilibrio, a oggi ancora non trovato, tra due diritti costituzionali: quello all’istruzione e quello alla salute. Un equilibrio che si è visto non poter essere garantito da un sistema scolastico burocratizzato e centralista come il nostro, evidentemente imploso e necessitante di riforme sostanziali.

Occorre imboccare finalmente la strada dell’autonomia: sono numerosi ed edificanti gli esempi di scuole che si sono messe all’opera da mesi per ristudiare gli spazi in modo da rispettare la distanza, i tempi di lezione e le modalità di ingresso/uscita per evitare assembramenti, la suddivisione dei gruppi di lavoro per garantire la tracciabilità in caso di contagio. Difficile, ma non impossibile, senza ricorrere a soluzioni improponibili e irrealizzabili, e a condizione di spendere tempo ed energie in collaborazione con tutte le componenti della scuola.

Alla Fondazione Grossman, ad esempio, si è costituito già nel mese di maggio un gruppo di lavoro denominato “Settembre è alle porte” composto da dirigenti, docenti, genitori, amministratori e responsabili della sicurezza, che hanno ipotizzato un rientro in presenza all’insegna della sicurezza e della flessibilità, anche con l’aiuto prezioso di un genitore architetto che ha gratuitamente contribuito alla progettazione degli spazi. Certo a qualcosa si deve rinunciare: non è semplice la gestione della mensa e, in base alle disposizioni attuali, non è possibile effettuare attività pomeridiane associando studenti di classi diverse. Ciò ostacola l’aggregazione libera che realizza uno degli scopi più importanti della scuola: favorire l’orientamento scoprendo doti e interessi, approfondendo contenuti, mettendosi alla prova in linguaggi e forme espressive diverse da quelle che solitamente si utilizzano a lezione.

Si è voluto ciononostante impegnarsi a fondo affinché per gli studenti sia possibile vivere una reale esperienza formativa, che non può limitarsi alla mera istruzione e neanche all’addestramento di pur utilissime competenze, ma si configura come compagnia – oserei dire “amicizia” – alla ricerca di un senso per cui valga la pena vivere, composta da adulti, che curano, e giovani, che vengono curati. E perché questo accada basta un desiderio vivo, una domanda accesa che si esprime in un luogo e in un tempo quotidianamente condivisi, in cui sia possibile un dialogo critico per formare una capacità di ragionamento e di giudizio. Altrimenti si finirà per realizzare la società prefigurata da Huxley nel noto romanzo distopico Mondo nuovo, in cui l’educazione consiste nell’inculcare durante il sonno (ipnopedia) nozioni e comportamenti nelle giovani menti:

“Fino a che, da ultimo, la mente del fanciullo sia queste cose suggerite, e la somma di queste cose suggerite sia la mente del fanciullo. E non solo la mente del fanciullo. Anche quella dell’adulto, per tutta la vita. La mente che giudica e desidera e decide, costituita da queste cose suggerite. Ma tutte queste cose suggerite sono suggerimenti nostri”. Il Direttore quasi gridava, nel suo trionfo. “Suggerimenti dello Stato”.

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