La figura di Alberto Manzi, famoso per la trasmissione Non è mai troppo tardi con cui negli anni 60 ha insegnato a leggere e scrivere agli italiani, può ancora dire qualcosa di utile alla scuola di oggi?

È con questa domande che Alessandra Falconi (responsabile del Centro studi a lui dedicato) apre la serie tv che Rai Scuola ha mandato in onda sul digitale terrestre nel mese di settembre 2019: “Alberto Manzi. L’attualità di un maestro”. Nelle puntate che la compongono, a partire da alcuni spezzoni d’epoca, vengono riattualizzati e proposti suggerimenti didattici derivanti dall’insegnamento di un uomo che ha speso la sua vita per gli altri (insegnare è questo: gesto di carità, dono all’altro di qualcosa di sé perché l’altro sia sé, fino in fondo).



Sono troppo giovane per aver visto le sue puntate, ma alcuni dialoghi di questi giorni con amici e colleghi e le domande che sempre più emergono in me sull’insegnamento nella scuola di oggi mi hanno fatto interessare alla figura e all’approccio pedagogico e didattico del maestro Manzi.

Nato a Roma nel 1924, dopo l’esperienza in guerra come sommergibilista (sono notizie ricavate dal sito del centro studi Alberto Manzi), va ad insegnare nel carcere “Aristide Gabelli” per finire poi tra i banchi di una scuola elementare. Questa esperienza lo porterà – grazie ad un’acuta intuizione del suo direttore didattico – a presentarsi ai provini della Rai per una trasmissione, in collaborazione con il ministero della Pubblica istruzione, volta all’alfabetizzazione di un’Italia che in quel periodo viveva un momento importante della sua storia: sono gli anni del boom economico, la vigilia della contestazione, un periodo vivace per la musica italiana e rivoluzionario per la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, quando la radio e la tv iniziano a entrare nelle case degli italiani come beni di consumo di massa insieme a frigoriferi, lavatrici ed automobili.



Manzi – lo racconta lui stesso nell’ultima brillante intervista – straccia la lezione che gli avevano preparato e comincia a fare da sé, proponendo quella metodologia che lo renderà famoso e che è tra le cose che, del maestro Manzi, hanno ancora molto da dire alla scuola di oggi.

Basta guardare un singolo spezzone della sua trasmissione per cogliere il tratto distintivo di un approccio didattico che, adattandosi allora con genialità al mezzo di diffusione delle sue lezioni, renderà il suo insegnamento efficace e ancora oggi attuale, a ormai cinquant’anni di distanza dalla sua prima puntata. La natura della televisione è quella di presentare immagini in movimento, così chiede fogli di carta e una penna e inizia a disegnare. Il pino, il mare, la nave e la casa (parole scritte e indecifrabili per gli spettatori che lo seguivano dai punti d’ascolto sparsi in Italia) diventano immagini sulla lavagna con cui il maestro conduce il discente a comprendere il concetto difficile e astratto di grafema in un modo semplice e immediato che anche la nonnetta di Allumiere (piccolo comune della provincia di Roma) riesce a cogliere e capire. È il 24 febbraio 1961: la puntata di quella giornata ha come ospiti, per la prima volta, uomini e donne che grazie al maestro Manzi in soli due mesi non sono più analfabeti. Questa volta, pian piano, in tratti grafici grezzi ma chiari, sul foglio compare un uomo seduto su una panchina, un albero, il sole: “c’è un uomo, c’è un albero, c’è un bel sole che splende”, agganci visivi per ancorare alla memoria degli studenti l’apostrofo dettato dall’elisione della vocale i.



È in quella puntata che Alberto Manzi, di fronte a un uomo che si reca ogni sera col suo asinello al punto di ascolto per non far tardi a scuola e che scrive alla lavagna il suo nome, “Avete visto le sue mani?” domanda, e si interrompe: “Non sono mani di scrittore, quelle; sono qualcosa di più, qualcosa di meglio […] è una gioia grande quella che loro hanno dato a me, a tutti noi, questa sera”.

Ecco un altro punto prezioso del suo insegnamento, da custodire anche tra i banchi delle scuole di oggi: il sentimento gratuito di chi, come un padre e una madre, si commuove al vedere qualcuno fare i suoi passi. È un sentimento profondo che sorge dall’animo adulto di un uomo che sa cosa significa attivare l’altro e le sue risorse: non c’è video, anche delle lezioni con gli studenti delle elementari, in cui Manzi non ponga domande, non esorti a ragionare, a discutere, a pensare con la propria testa, a riflettere sulle parole e cercarne il valore, promuovendo così comunità, iniziativa, dialogo e rispetto.

Non serve quasi dire che durante le estati il maestro Manzi si recava in America Latina per programmi di scolarizzazione delle popolazioni indigene e che, negli anni 90, fu tra i primi ad occuparsi (sempre in tv) dell’insegnamento dell’Italiano L2 ai migranti arrivati nel nostro paese; sono quasi, infatti, sbocchi naturali dell’attenzione ai bisogni e della genialità pedagogica che vado scoprendo in questa figura.

Non serve neanche dire che le sue lezioni in tv avevano la valenza di attività di aggiornamento per i maestri di tutto il paese: anche questo è dentro la lungimiranza di una didattica attiva, creativa, innovativa e originale di un vero maestro ed educatore.

Ma serve dirlo perché, benché cambino tempi, strumenti e modi della scuola, la sua natura rimane la stessa, e l’avventura che vi si vive ogni giorno ha a che fare con la curiosità e il desiderio di sapere che caratterizzano i bambini e gli uomini di ogni tempo; è solo se la curiosità e il desiderio sono vivi in ciascuno che la scuola fa incontrare alunni e insegnanti. “Cari ragazzi di V”, scrive salutando una classe: “Per cinque anni abbiamo cercato, insieme, di godere la vita; e per goderla abbiamo cercato di conoscerla, di scoprirne alcuni segreti. Abbiamo cercato di capire questo nostro magnifico e stranissimo mondo non solo vedendone i lati migliori, ma infilando le dita nelle sue piaghe perché volevamo capire se era possibile fare qualcosa, insieme, per sanare le piaghe e rendere il mondo migliore. […]”.

Sì, credo proprio che il maestro Manzi ne abbia, di cose da dire alla scuola di oggi. Non si può, in questo articolo, dire tutto ciò che vado scoprendo e vorrei approfondire; ma ciò che più conta è che ascoltare e vedere quest’uomo in azione rilancia la bellezza e l’audacia del mestiere dell’insegnante. Provare a guardare per credere.