“Si ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo”… scriveva Manzoni nel Conte di Carmagnola. Oggi siamo in presenza di un Conte meno blasonato, ma molto avvezzo agli squilli, a cui rispondono altrettanti squilli a destra, a sinistra e anche al centro (if any…). Tutta questa squillantezza si concentra sul fatto che nello spendere i molti miliardi del fondo Next Generation EU bisogna privilegiare la scuola, l’università, la ricerca.
Brillante intuizione, visto che next generation significa appunto i giovani, che sono (dovrebbero essere) al centro dell’attenzione del sistema formativo. Ma come, concretamente, si pensa di spendere tutti questi soldi? Che cosa vuol dire “investire in formazione”? Io, francamente, vedo che tutto si concentra, forse comprensibilmente, sull’emergenza: ma prima o poi ne usciremo, e allora che cosa resterà nella scuola, a parte i banchi e i divisori, e magari anche qualche tablet? Temo fortemente, per non dire che sono praticamente certa, che investire una quantità di denaro, di cui non si ha memoria, nella scuola così com’è sia come raddoppiare le dosi di una medicina che si è dimostrata inefficace.
Vorrei approfittare di questo spazio per provare a riordinare le idee, e magari a fornire qualche spunto. È necessario partire dal fatto che una scuola, ma possiamo parlare del sistema formativo nel suo insieme, per raggiungere il suo scopo, dovrebbe garantire le “tre E”: efficienza, efficacia ed equità.
Equità, cioè la possibilità per tutti non di un’uguaglianza formale negli accessi che si traduce in una disuguaglianza reale negli esiti, ma di una piena realizzazione delle proprie possibilità; efficacia, cioè la capacità di rispondere alla domanda dei suoi singoli utenti e della società, ed efficienza, farlo con il miglior rapporto possibile fra costi e benefici. Non starò a ripetere perché la scuola attuale non sia né efficiente, né efficace, né equa (posso farlo a richiesta con dovizia di dettagli e di esempi), e non sia stata in grado, nonostante i tentativi di riforma di sistema che si sono susseguiti negli ultimi venti anni, di risolvere la maggior parte dei suoi problemi.
Mi limito a ribadire che il modello scuola centrico a monopolio statale, assolti lodevolmente alcuni compiti fondamentali, come quello di un’alfabetizzazione diffusa e di un sostegno alla mobilità, è stato mantenuto in vita ben oltre la sua ragionevole durata, tanto che questo accanimento terapeutico sta annullando anche i due grandi obiettivi raggiunti: l’analfabetismo funzionale ha raggiunto livelli preoccupanti, e i meccanismi selettivi, formali e informali, sono ripartiti alla grande.
Oggi come oggi, mediamente, lo Stato italiano garantisce a tutti la scuola, ma non la qualità della scuola, che resta casuale, dipende dalla scuola, dalla sezione, dal singolo professore, e soprattutto l’alunno (o la sua famiglia) non hanno nessuna possibilità di controllarla. L’equità consiste piuttosto nell’equiprobabilità di avere dei buoni/cattivi insegnanti, indipendentemente dalla classe sociale (e questo tra l’altro è vero solo in parte, e viene poi compensato dall’ambiente famigliare).
Per questo motivo, e confortata (se di conforto si può parlare) dal fallimento dei tentativi di mettere il vino nuovo in una botte vecchia, mi sento di riaffermare con forza ancora maggiore che l’unica riforma che costituisce un prerequisito del miglioramento è cambiare il modello vigente, realizzando finalmente una scuola veramente autonoma, che venga messa in grado nella pratica e non solo sulla carta di formulare un progetto didattico chiaro e condiviso dai suoi utenti.
Questo richiede libertà di scelta, cioè la possibilità per le scuole di scegliere gli insegnanti in base alle esigenze del progetto, la possibilità reciproca per gli insegnanti di scegliere la scuola in base al progetto, la possibilità per le famiglie di scegliere una scuola il cui progetto considerano adatto ai loro figli – quando i figli saranno grandi, nulla vieta che partecipino alla scelta. Questa trasformazione avrà presumibilmente dei costi, anche se tutti gli studi dicono che modificare le modalità di finanziamento, oltre ad accrescere la libertà di scelta comporta un certo numero di risparmi: ma adesso i soldi ci sono, e quindi la scusa non vale.
La bulimia da controllo su ogni minuzia, a cui stiamo assistendo, non garantisce né l’efficienza né l’efficacia, né tantomeno l’equità, che non si fissano centralmente ma responsabilizzando le scuole su come spendono i fondi a loro assegnati, in base al numero di studenti. Il cosiddetto “risparmio” generato dalla centralizzazione degli ordini, ad esempio, è pura fantasia: la maggior parte delle scuole paritarie si è procurata i mitici banchi monoposto entro la metà di settembre, e con una spesa minore, e mi ha molto colpito la scuola steineriana che ha fatto costruire i banchi dai genitori nel laboratorio di falegnameria, con un costo unitario di 17 euro. È solo un esempio, non sto teorizzando l’alternanza lavoro/scuola dei padri e delle madri.
Sì, ma l’anarchia… Dovrebbe essere inutile dire che a maggiore autonomia corrisponde maggiore controllo: le scuole devono sapere che saranno valutate in base ai risultati che ottengono. In linguaggio tecnico, il monitoraggio non si fa sugli input, controllando minuziosamente l’assegnazione delle risorse a partire dagli insegnanti, e incuranti del fatto che questa centralizzazione non è e non sarà mai in grado di garantire il reclutamento di insegnanti validi, né di premiarne il merito, ma sugli output, cioè sui risultati ottenuti. Ogni scuola pubblica (e per pubblica intendo, secondo il dettato troppo disatteso della legge 62, sia le scuole statali autonome che le scuole paritarie) fissa i propri obiettivi coerentemente con quelli che lo Stato, a buon diritto, considera valori di cittadinanza, ma a parte questo può procedere liberamente, all’interno dei vincoli di bilancio, e verrà giudicata sui risultati ottenuti; se si preferisce, sulla sua capacità di mantenere il patto con le famiglie che l’hanno scelta e con lo Stato che l’ha accreditata. Il sistema nazionale di valutazione, Invalsi in testa, va valorizzato e sviluppato, non sistematicamente depotenziato. Lo Stato ha sempre sostenuto di avere l’intenzione di finanziare le scuole paritarie, in quanto pubbliche, purché avanzassero dei soldi dopo aver finanziato le scuole statali. Adesso, i soldi per finanziare il sistema integrato ci sono: spero che, parallelamente, non ci siano anche nuove scuse per utilizzarli solo per le scuole statali.
Perché questa trasformazione avvenga, è necessario avviare subito un progetto operativo a lungo termine, magari preceduto da una fase sperimentale immediata per metter in luce le necessarie condizioni, anche in termini di tempi e di costi: costi che oggi sono coperti, tempi che, ahimè, sono e restano quelli lunghi della cultura e non quelli brevi dalla politica.
E, per chiudere il cerchio, anche se si potrebbero trovare delle affinità fra il conte e il Conte nelle contese con Milano e Venezia, lo speriamo destinato a miglior fine, e ci auguriamo che decida finalmente di avviare un processo radicale di cambiamento della scuola. Il conte di Carmagnola, da buon capitano di ventura, sapeva scegliere suoi uomini, e vinceva… Che il Conte contemporaneo possa combattere questa battaglia con i soldati che ha arruolato, beh, questo è tutto da vedere.