Nei primi giorni di settembre il collegio docenti si riunisce per programmare le attività e per deliberare alcune scelte organizzative. Si tratta di atti irrinunciabili che segnano l’inizio della traiettoria di un anno. Ci potrebbe essere il rischio però di esaurire il lavoro del collegio in un susseguirsi di scelte organizzative certamente utili ed efficaci, spesso dettate dall’incalzare degli adempimenti burocratici, che perda però di vista la finalità fondamentale della scuola.
Ma qual è la finalità della scuola? Tutto il personale scolastico dovrebbe averla chiara e quindi saper rispondere con sicurezza a questo interrogativo, ma forse è bene non darlo per scontato. Questa domanda ho voluto che facesse da guida nel primo collegio docenti della scuola che dirigo.
Ci siamo lasciati interrogare da un breve video, facilmente rintracciabile in rete, in cui la professoressa Daniela Lucangeli cerca di rispondere a questo quesito: “Come si nutre il desiderio di imparare?”. Nel suo intervento in modo molto sintetico spiega come la curiosità di sapere non si nutra solo dando sapere, conoscenza, ma anche alimentando il desiderio, ampliandolo. La scuola è chiamata a tenere questo equilibrio. Il vero magister muove all’interno di questo equilibrio e rifugge dall’ingozzamento cognitivo, per usare un’espressione ripresa sempre dalla Lucangeli.
Se alle domande degli studenti si risponde solo fornendo informazioni, a volte pure con un linguaggio poco adatto alle loro competenze, si rischia di spegnere la loro curiosità. Capita spesso infatti di notare, all’interno degli istituti comprensivi, il progressivo venir meno, in rapporto con la crescita dell’età anagrafica, delle domande: dall’iniziale incalzare dei “perché” dei bambini della scuola dell’infanzia allo sguardo distratto e addirittura, a volte, annoiato degli adolescenti o preadolescenti della scuola secondaria.
Certamente non è ascrivibile solo alla scuola questo mutare di atteggiamento e non è rintracciabile in tutti i bambini e in tutti gli adolescenti: gli esseri umani sono per loro natura diversi l’uno dall’altro, ma si tratta di una tendenza piuttosto generalizzata. Tendenza che probabilmente trova la sua ragione d’essere più profonda in una concezione antropologica che la modernità e la contemporaneità hanno veicolato nel tempo.
“L’idea di un Io autonomo capace di libera scelta e giudizio morale costituisce uno dei presupposti della modernità. In fondo, gli ultimi secoli altro non sono che un titanico sforzo per affermare quest’idea dal punto di vista politico (la democrazia) economico (il mercato) e culturale (la sfera pubblica). Per realizzare questo progetto, l’essere umano è stato ‘spacchettato’ nelle sue dimensioni fondamentali. E lungo la linea di pensiero che da Cartesio arriva a Kant, la parte ‘libera’ è stata identificata con quella razionale, quella cioè capace di non rimanere assoggettata alle spinte confuse e contraddittorie (e quindi sottratte al controllo dell’Io) dell’emotività e della corporeità. Salvo poi accorgersi che tale operazione, oltre che impossibile, ha come conseguenza l’obbedienza ai dettami della razionalità strumentale (economica, burocratica, tecnica) o, per contrappunto, la consegna alle risorgenti paure irrazionali che assalgono un Io sempre più isolato, e dunque fragile”.
La lunga citazione dal testo di Giaccardi e Magatti, Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo (Il Mulino, 2020), chiarisce con una sintesi molto efficace una visione antropologica che trova accoglienza nella scuola.
Un io “spacchettato” in cui la ragione, frequentemente ridotta a razionalità scientifico-tecnica, rifugge dalle emozioni e dalla corporeità e fatica a lasciare spazio alla dimensione del desiderio, vero propulsore e catalizzatore di ogni dinamica umana.
L’io si muove perché de-sidera le stelle, il reale, il mondo in un cammino che non finisce mai, perché “ci sono ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”, ci ricorda Shakespeare nell’Amleto.
Per questo occorre rimettere al centro delle nostre scuole una visione antropologica in cui l’io sia affermato nella sua interezza, costituito di ragione, cuore, emozioni e corporeità che non si muovono mai in modo autonomo e dove il desiderio sia non sono accolto, ma coltivato e fatto crescere, come indicatore di una infinita sete di conoscenza.
Questo ci insegnano anche le neuroscienze, quando, sempre per utilizzare un’espressione ricorrente negli scritti della Lucangeli, fanno riferimento alla warm cognition: “Significa che il bambino, apprendendo accompagnato da emozioni positive, associa stabilmente queste ultime alle nozioni che incamera e conserva nella propria memoria la traccia di questo benessere. Questo è, davvero, in-segnare, ovvero lasciare il segno. Questo è aiutare, l’intelligenza” (D. Lucangeli, Cinque lezioni leggere sull’emozione di apprendere, Erickson, 2019).
La warm cognition o, come potremmo dire con altre parole, la crescita globale del bambino, dello studente è il fine della scuola, per questo l’attenzione alle character skills può essere il grimaldello per un reale cambiamento.
Fine della scuola non sono dunque l’insegnamento o genericamente la crescita della conoscenza, come se questa potesse essere misurata, pesata. In questo modo la scuola si ridurrebbe alla presentazione di contenuti da parte dei docenti e alla restituzione degli stessi ad opera degli studenti con relativa valutazione dell’insegnante. Questa prassi però, sempre riprendendo un’immagine di Lucangeli, tralascia l’elaborazione, la fase del “da dentro a dentro”, durante la quale lo studente ragiona, integra, fa suo quanto gli è stato proposto e solo con questo processo impara realmente.
In questa prospettiva l’apprendimento è un fatto sociale, perché il sapere si elabora nel tempo e nell’interazione con altri.
La classe diventa allora una palestra continua di apprendimento, altrimenti, all’interno delle aule, albergano estraneità, ripetitività, conformismo, anche quando la vita interroga con la sua drammaticità.
“Quando la maestra ci ha parlato dell’assassinio di Rabin aveva esattamente la stessa faccia di quando aveva riferito alla classe che Ghidi era stato ucciso, il che mi ha fatto sospettare subito che quella faccia, quello sguardo serio negli occhi, i denti che si mordevano le labbra, tutto sia solo una maschera che lei si mette quando pensa di dover essere triste. Quando ha finito si è appoggiata alla cattedra con il sedere e ha chiesto ai bambini di parlare, di raccontare quello che provavano. Come sempre in situazioni del genere, quando cioè uno non sa che dire, tutti ripetevano quel che aveva detto lei, solo con parole un po’ diverse. Io non ho alzato la mano. È un po’ che in classe non parlo più, io (Eshkol Nevo, Nostalgia, Mondadori, 2006).
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