In una splendida canzone dedicata alla figlia [che soprannomina, come dal titolo, Culodritto, ad indicare il suo stato di infante ancora informe], Guccini scrive dei versi molto significativi per raccontare anzitutto la propria storia:
“Anche se non avrai le mie risse terrose di campi, cortile e di strade / e non saprai che sapore ha il sapore dell’uva rubato a un filare, / presto ti accorgerai com’è facile farsi un inutile software di scienza / e vedrai che confuso problema è adoprare la propria esperienza… / Culodritto, cosa vuoi che ti dica? Solo che costa sempre fatica / e che il vivere è sempre quello, ma è storia antica…”.
Il vivere è storia antica, è vero. È difficile ora, e lo era (per motivi diversi) prima. Ma almeno, verrebbe da osservare, i bambini potevano giocare nei campi di terra senza che nessuno li valutasse continuamente, senza che ogni istante del gioco o del tempo libero, oppure ogni tratto della propria personalità fosse psicologizzato, medicalizzato, e sempre misurato.
La domanda è anche con che cosa viene misurato, e se questa misura che si decide ogni giorno di impiegare è più efficace, salutare, produttiva; se riesca insomma a sostenere la più grande eccellenza, che è imparare ad “adoprare la propria esperienza”.
Ogni volta che si sente o si dice che una cosa è più giusta, sarebbe forse opportuno domandarsi con lealtà quale sia il criterio che adottiamo per giudicare un risultato, un’idea, una proposta. L’antidoto alla responsabilità di quell’eccellenza estenuante non mi pare allora una mancanza di responsabilità, ma piuttosto la responsabilità ad una libertà, ad una ricerca tenace, ad una consapevolezza dei propri talenti.
Un’educazione che si prefigga – nella trasmissione delle conoscenze, nel rapporto umano, nella comunicazione – un tale obiettivo, non può eludere la domanda quotidiana di quale sia il confine tra ciò che è giusto e ciò che è vero, tra ciò che si sta comunicando come gesto presente, capace in quanto tale di portare qualcosa a chi si ha davanti, e una logica (seppur “giusta” o evidente, come quella del successo e del denaro) dettata da qualcosa di esterno, e dunque già vecchia, incapace di intercettare e far vivere un interesse.
Proporre e conoscere qualcosa di vero oltre il confine della semplice logica forse implica due esperienze fondamentali: quella della bellezza e quella dell’affetto; ancor meglio, di un affetto come certezza di un valore. Ci si può facilmente domandare se sarebbe più invitato, più facilitato a dare risultati creativi, inaspettati, realmente eccellenti chi fosse continuamente messo sotto pressione, misurato, intimorito dalla paura di fallire in “questo mondo, per come vanno le cose”, o chi potesse confrontarsi con un’ampia offerta di possibilità, di bellezza, di diversità, capendo di poter contribuire in prima persona a far andare le cose e il mondo. Qualunque allenatore di sport lo capisce bene: se vuoi far correre i tuoi atleti per 10 km, non dai loro un motivo per fuggire ma una meta verso cui correre.
Soprattutto, però, è l’affetto; o per meglio dire, una preferenza. Che al loro fondo le azioni umane siano mosse – oltre che dal desiderio di realizzazione – dall’esigenza di essere amati, non è una scoperta nuova. Ma riconoscere di essere voluti per ciò che si è, e solo dopo per ciò che si fa, è una scoperta a suo modo sorprendente. Chi non vorrebbe sentirsi, sapersi già amato, già stimato un attimo prima della sua performance, indipendentemente dal suo esito? Con che leggerezza, libertà, baldanza si andrebbe a fare ciò che si deve fare?
Come dire: in un mondo che ci obbliga all’eccellenza, il primo gesto rivoluzionario è (ed è dire) che tu sei grande, forte, già solo perché ci sei; e sei voluto bene molto prima della tua intelligenza, della tua eventuale genialità, dei tuoi trionfi. Molto prevedibilmente, una tale certezza vorrebbe dire anche più trionfi, più energia, più originalità, più cambiamento, più umanità.
(2 – fine)