Ci sono storie che raccontano, altre da cui siamo raccontati. Storie da conoscere e altre che ci conoscono da sempre. E così, per spiegare la guerra del 1940-’45 ai miei alunni faccio di solito riferimento ad aneddoti e racconti che tanti, fra i milioni di soldati che partirono per il fronte, lasciarono scorrere su pezzi di carta a volte rimasti segreti e custoditi per decenni.
Per capirla, la guerra, i libri non bastano; sarebbe come spiegare l’amore, l’amicizia, il perdono. Come fai? Che dici? Quei brandelli di muri invisibili, quei solcati di distanza tra te e ciò che studi sono lì a dirti che il fiato e le parole mancheranno sempre per fare centro. Occorre altro. Occorre mettersi gli anfibi dei soldati che partirono, lasciarsi scivolare addosso quelle divise logore che per anni hanno riempito l’orgoglio di quei petti prestati al destino, imbracciare quel Mod. 91 all’estremità del quale non era inserita solo una baionetta ma tutti i sogni di gloria di una intera generazione. Empatia, la chiamano gli psicologi. E sia.
Inizio allora a raccontare la storia di quel giovane e fiero soldato che lasciò le montagne dell’Appennino per arruolarsi a Roma, dove la sua famiglia viveva già da un po’. Al paese aveva lasciato una giovane donna: la più bella, come avrebbero raccontato i vecchi. Angela aveva appena 15 anni, orfana di padre ma già la forza di una leonessa. Gli giurò amore eterno: “vai, fai il tuo dovere, io ti aspetto. Sono tua e di nessun altro. È una promessa”. Lui di anni ne aveva 26: era un uomo fatto, era già stato a Derna, in Africa, nel 1936 e lì aveva assaporato l’amara corruzione della guerra.
Un giorno, prima di partire per il fronte, il soldato riconosce sulla pagina di cronaca di giornale la foto del padre: era stato investito da un tram ed era ricoverato, gravissimo, in ospedale. Salta su. Chiede al superiore di potersi assentare per andare a trovarlo; è l’unico figlio, e sa che potrebbe non rivederlo più una volta partito. Sarebbe potuto morire lui, sarebbe potuto morire il padre, sarebbero potuti morire entrambi. Permesso negato. Era troppa la paura dei disertori, allora. Il soldato non si perde d’animo. Fa una promessa dal tono solenne a quel superiore così arcigno: “in battaglia la prima pallottola sarà per te”, e scappa via col favore della notte. Dal padre non poteva non andare. Scopre che ha avuto gli arti inferiori amputati ma era comunque sopravvissuto. Può allora tornare al reggimento e partire. Con una bella denuncia da disertore sulle spalle. Se la porterà addosso fino al 1967, quando venne definitivamente prosciolto da quell’infamia. Ma per lui fu sempre una medaglia: l’amore per il padre prima di ogni altra cosa. Lo avrebbe rivendicato con orgoglio fino all’ultimo sospiro.
Poi l’Albania, dove conobbe la povertà più nera e fece su e giù con la Puglia nei momenti, rari, di congedo. E poi, ancora, la Grecia, che lo segnò a vita. Lì dove la Voiussa si fece rossa col sangue degli alpini conobbe la pena del “freddo” dei monti. Lui, che sui monti c’era nato. Le tende da campo erano troppo piccole: o stavano dentro i piedi o stava dentro la testa. E così – a causa anche delle famose scarpe “di cartone” con cui gli italiani partirono per la guerra – ebbe i piedi congelati a vita. Senza più sensibilità, senza più controllo.
Si risparmiò la Russia, forse proprio per quei piedi così provati. E fu una grazia, perché chi andò nelle sterminate steppe sovietiche – il più delle volte – tornò solo nei ricordi tormentati degli affetti più cari.
La convalescenza, l’ospedale, e poi di nuovo il fronte. Quel ragazzo non ancora trentenne aveva visto tutto ciò che la guerra aveva da offrire: la morte – ricevuta e data – la sofferenza, il dolore, la lontananza, la fame, la sporcizia, i sogni di gloria evaporati in quel rancio sempre più misero e asciutto. E la paura, come quella di quel giovane compaesano che – dopo aver abbracciato col grido negli occhi le grate della chiesetta di San Rocco – gli avrebbe confidato sconsolato: “io non torno più qui, io in guerra morirò”. Morì davvero. Oggi quel soldato riposa nel Sacrario Militare dei Caduti d’Oltremare, a Bari. Al cimitero del paese vi è solo una lapide commemorativa a far da monito ai posteri.
Quando tornò a casa aveva 31 anni. Lei lì, ad aspettarlo, come aveva promesso. Il tempo di ritrovare un mestiere, metter su casa, e si sposarono. Era il 1947. Si conoscevano appena, in realtà, dacché la guerra li aveva tenuti lontani per anni; fu comunque un matrimonio riuscito, di quelli che generano. Lei, per lui, fu sempre “la signora”, come amava chiamarla anche da vecchia, quando le rughe le scavavano ormai il volto.
Ripartivano loro, ripartiva l’Italia.
Immaginate quanta sorpresa affiora nella classe quando svelo ai ragazzi che quel soldato era mio nonno! Si chiamava Battista, ed era un abruzzese forte e gentile.
“Io non sarei qui con voi” – dico loro – “se le cose non fossero andate esattamente come sono andate. Bastava una sbavatura, una stonatura, una pallottola deviata, una scheggia di granata e io non stavo qui a raccontarvi questa storia”. È un momento bello perché, al di là della sorpresa, ci accorgiamo insieme di quel filo incandescente che lega l’oggi allo ieri, quello che siamo a quello che siamo stati, il presente al passato. Noi abbiamo a che fare con gli uomini che sono stati, e loro hanno a che fare con noi: siamo fatti della stessa pasta. Chiamata destino. Conoscendo loro, conosciamo noi; conoscendo noi, conosciamo loro. “Non si studia che per amore del proprio destino”: di solito è così che finisco questo tipo di lezioni.