Le scuole apriranno. Non possono non riaprire, se non al prezzo di un’insurrezione delle famiglie con annessa marcia su Roma, sit–in davanti al ministero dell’Istruzione e presa del potere da parte di nonno Libero (che tra l’altro è anche amico dei grillini da cui discende l’attuale inquilina di Viale Trastevere) a nome di tutti i nonni d’Italia che paventano un altro lockdown. Di sicuro apriranno. Ma come?



Al Meeting di Rimini l’argomento scuola–educazione è stato messo sul piatto fin da subito, fin dall’intervento di Mario Draghi che in realtà ha volato più alto, toccando i temi dell’investimento sui giovani, della loro qualificazione professionale, della messa in opera a loro vantaggio degli strumenti che consentano di recuperare il debito creato con la pandemia. Si tratta, nel caso di Draghi, di un “pensiero lungo”, per usare un’espressione utilizzata dall’on. Giorgetti in un altro dibattito, che contrasta con i pensieri corti di quelle parti politiche che normalmente si occupano di scuola guardando all’agenda elettorale.



Ad ogni buon conto, più si discute di scuola, come si sta facendo in questi giorni, non solo al Meeting, ma sui giornali, sui social e in televisione, in vista della riapertura, e più emerge chiaramente la drammatica spaccatura di origine culturale che è all’origine di tutti i nostri guai.

Spaccatura tra un’azione di governo preoccupata di andare al carro del Comitato tecnico scientifico che monitora il tasso pandemico e suggerisce/impone regole (le sappiamo: distanziamento, sanificazione degli ambienti, mascherine), da cui deriva la tragicommedia dei banchi a rotelle, e una parte dell’opinione pubblica (alcuni intellettuali, alcuni politici, molti addetti ai lavori, insegnanti, genitori, gli stessi alunni più grandicelli) che si chiede: a quale scopo? Si badi bene: non a quale scopo dotarsi di attrezzature che mettono al sicuro dal contagio in una situazione di pandemia, ma a quale scopo farlo nella scuola, il cui fine ultimo non è la sicurezza delle persone, ma la loro crescita formativa e culturale.



In altri termini: è mai possibile che il fine, come ci ha insegnato l’italianissimo Machiavelli da tutti citato anche quando si condisce l’insalata, non giustifichi più i mezzi, ma i mezzi erodano fino a farlo scomparire il fine? Si intende il fine della scuola, ovviamente. Riemerge drammaticamente la spaccatura. C’è oggi una corrente pedagogico–attivistica che ha colto la pandemia per insistere su un’idea per la verità non nuova che potremmo definire “oggettivizzazione dell’educazione”. In questa prospettiva l’educazione e qualunque processo formativo non sarebbero altro che l’asettico risultato di piattaforme di dati e problemi che l’individuo, da solo e con le sue sole forze intellettive, dovrebbe progressivamente assimilare e risolvere in un crescendo di difficoltà che al termine del processo lo rendono abile ad immergersi nella realtà di ogni giorno.

Questa sorta di digitalizzazione dell’istruzione si sposa molto bene con la didattica a distanza, la scuola delle sole competenze, l’attivazione negli individui di processi mentali di adattamento. Si sposa molto bene con una scuola di Stato che fornisce regole uguali per tutti e un pensiero unico per quanto riguarda l’approccio ai contenuti scolastici.

Questa modalità, tuttavia, non fa i conti con l’interezza delle persone che non sono solo intelligenza, ma anche cuore, affezione e sentimento. Come la mettiamo allora da questo punto di vista con un bambino di scuola primaria che concepisce la scuola come abbraccio fisico, da dare e da ricevere tra compagni e tra maestri e alunni, come fonte dell’assimilazione delle conoscenze? Questo spunto ci riporta ad un’altra idea di scuola, il cui fine non è strettamente intrinseco al lavoro didattico, ma attinente ai desideri della persona stessa e di coloro (famiglia, comunità, società) che se ne prendono cura.

In questo secondo senso, la scuola non nasce nella scuola, tra i banchi, ma è originata da una idea di trasmissione o consegna di cultura, intesa come ipotesi di significato, da una generazione all’altra. Perché dunque in questa fase così delicata di riapertura non aprire anche il “file” dello scopo ultimo dell’istruzione, ritrovando le origini dello stesso atto educativo che inizia fuori della scuola e si completa dentro di essa nel confronto con le materie scolastiche e l’assimilazione critica della loro specificità? Perché non spendersi anche, lo chiediamo al governo, ai sindacati, ai politici, per ricostruire il nesso tra la didattica e la vita, molto più densa di mistero e di positività di quanto suggerisca un’emergenza sanitaria?

In questa ottica non si derogherebbe alla sicurezza, ma si ribadirebbe che in un contesto di istruzione pubblica statale e non statale la scuola è anzitutto di chi la fa: famiglie, insegnanti, genitori, presidi, personale ausiliario. E chi la fa, anziché sottrarsi alle sue responsabilità, dovrebbe essere messo in grado di rispondere alle sfide. Stiamo proprio parlando di sostegno anche finanziario diretto alle scuole statali e non statali, semmai qualcuno non se ne fosse accorto!