Troppo spesso, di fronte alle problematiche più svariate che accadono nella società si fa riferimento alla scuola, meglio alla crisi della scuola. Incapace di educare, non in linea con i tempi, lontana dalle vite dei ragazzi, non più al passo dei tempi e via discorrendo. Una crisi inesorabile che lascia trapelare quanto lontani siano proprio tali giudizi, quanto fuori luogo siano certe affermazioni. Di sicuro assistiamo a piogge di milioni, progettazioni, progetti e progettini che vengono proposti, elargiti per il “bene” della scuola stessa. Quasi come se il problema sia la mancanza di beni “economici” e non educativi, strutturali per il benessere della scuola e, quindi, dell’alunno. Demandare, scansare, evitare il problema ponendo finanziamenti, riempendo le scuole di strutture tecnologiche per compensare una totale assenza di proposte culturali cioè di vita.
Ed ecco il PNRR, strutturato e pensato per riempire vuoti tecnici senza considerare la carenza anche strutturale di edifici fatiscenti. Un po’ come il genitore che per compensare la sua assenza da casa riempie le tasche dei figli di denaro e beni assolutamente non necessari.
Sembra che a livello governativo e quindi europeo (almeno per ciò che ci compete) l’attenzione si sia spostata su aspetti scolastici ed educativi che non riguardano direttamente le esigenze degli alunni stessi. Si punta su finanziamenti per far lavorare tutti, occasioni per creare attorno alla scuola attività che poco hanno da dare alla crescita dell’alunno.
La cosa più intollerabile è il considerare la scuola come origine di un certo tipo di atteggiamenti in essere tra i giovani di oggi. Intollerabile è il demandare alla scuola quelle che sono le responsabilità proprie di un padre e di una madre. Grave è osservare quanta poca capacità di educare c’è in giro, quanta povertà culturale ed educativa ci sia in una famiglia, quanta poca umanità giri tra gli ambienti di una società dedita al raggiungimento di obiettivi economici dei più banali e che possono essere immediatamente soddisfatti.
Davvero ogni problema o piaga sociale si ritiene che possa risolversi grazie ad un’istituzione che viene per prima spesso ridicolizzata e bistrattata da ragazzi e genitori? E che occupa un quarto o un terzo delle ore della giornata di un bimbo e di un ragazzo? Ma chi, in tutto questo tempo, nonostante i social – che inebetiscono i genitori in primis –, nonostante i trapper, gli influencer, le Gomorra da mitizzare, è rimasto anacronisticamente quasi da solo a parlare di pace, emozioni, empatia, a chiedere di non litigare con il compagno, di dire grazie, prego, permesso, di aspettare il turno per parlare, di considerare l’altro, di aiutare l’altro, di cooperare e di prendersi l’elogio se si fa bene e la punizione (spesso messa in discussione) se si fa male? Chi è rimasto quasi solo a far vivere gioie ma anche frustrazioni, responsabilità, regole? Chi è rimasto spesso da solo anche a indicare e svelare problematiche, deviazioni, disagi? L’ora di affettività vi serve per stare sereni in coscienza, come l’educazione alimentare introdotta per combattere l’obesità, mentre i bambini diventano sempre più obesi? O come i percorsi contro il bullismo, per poi vedere il bullismo dilagare, non più relegato soltanto alle aree o classi sociali “difficili”?
La scuola c’è stata, c’è e ci sarà ed è giusto che come istituzione faccia, come sempre, la sua parte, ma smettetela di aspettarvi che un’ora a scuola renderà i figli migliori, smettetela di creare tanti piccoli imperatori. Si ricominci dall’educazione, ma da quella di casa e da quella “sociale”, quella che insegna dalla culla la responsabilità, la fatica, il fallimento, lo “scuorno”, il limite, a sopravvivere ai no e ai rifiuti. Solo così anche a scuola si farà molta meno fatica ad insegnare a leggere, scrivere a far di conto e a parlare di bellezza, di ideali e di valori, gli unici a rendere davvero migliori gli uomini.
E allora cosa augurarsi per questo nuovo anno appena cominciato, se non che noi adulti, noi insegnanti, possiamo cominciare a riconoscere una responsabilità non per gli alunni, non per i figli in maniera così stupidamente e genericamente sentimentale, ma per noi; una positività e possibilità di rapporti che consolidino uno sguardo, un desiderio di far venir fuori quel briciolo di bene di cui ciascuno è fatto.
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