Alcune vicende toscane ci interrogano sul tema dell’adolescenza. Raccontiamole sinteticamente.
La prima è quella dell’occupazione di un liceo pistoiese, circa un paio di mesi fa. La preside racconta che un pomeriggio, al termine delle lezioni, alcune decine di alunni, a forza, hanno cercato di entrare a scuola. Un paio di insegnanti ha tentato di opporsi e ne sono derivati spintonamenti e tensioni. I ragazzi comunque, una volta dentro, hanno dato inizio a un’occupazione, che peraltro si è risolta in breve tempo. Poi hanno dichiarato di essere stati malmenati dai professori (proprio così…) e sono stati sostenuti, in questa loro posizione, dai genitori. Dalla vicenda sono scaturite delle denunce e probabilmente si finirà di fronte ai giudici.
Al “Cicognini” di Prato è accaduto, invece, che ad alcune coppie gay sia stata rifiutata la partecipazione al tradizionale ballo della scuola. La questione, attualmente, ha trovato soluzione, dal momento che c’è stato un ripensamento da parte della scuola e quelle coppie sono state ammesse. Ma il superamento dell’originario diniego non ha placato gli animi. A questo va aggiunto che la scuola ha somministrato un questionario all’“universo” degli alunni, per sapere quale fosse il loro parere in merito alla vicenda, se cioè appoggiassero la partecipazione delle coppie gay oppure no. Il risultato, seppur di poco, è stato sfavorevole a queste ultime e, a quel punto, le proteste, commiste ad amarezza, sono state ancora maggiori.
Le due vicende hanno qualcosa in comune? Apparentemente no, poiché la problematica che ciascuna di esse muove ha una natura specifica, del tutto diversa dall’altra. Vediamole singolarmente.
Le occupazioni – ben diversamente da ciò che suggeriscono alcuni luoghi comuni – non rappresentano una fase di crescita individuale e non sono antropologicamente un rito di passaggio all’età adulta. Esse comportano tensioni e momenti nel corso dei quali le scuole sono lasciate in balia di ragazzi non sempre pienamente responsabili (in primo luogo perché minorenni e in secondo luogo perché adolescenti, cioè alla ricerca dell’età adulta). Spesso si concludono con uno strascico di danni alle apparecchiature e alle suppellettili, danni che ammontano anche a decine di migliaia di euro.
Quanto al “Cicognini”, il risultato del questionario non va interpretato come un segnale d’intolleranza degli alunni verso l’orientamento sessuale di alcuni loro compagni e compagne. È probabile, invece, che esso sia espressione dello sgradevole clamore che la questione, ascesa alle cronache nazionali, ha prodotto. Il sentiment complessivo delle scuole italiane non è affatto omofobico.
Nei giorni scorsi, nella mia scuola, ho chiesto ad alcuni docenti un parere sulla vicenda. Ebbene, tutti quanti mi hanno risposto che il rifiuto era sbagliato. Questo mio personale sondaggio, che non ha valore scientifico, evidenzia comunque cosa misuri il termometro interno alle scuole.
I due eventi sono accomunati dal fatto che mostrano plasticamente come l’età della contestazione, nata nel secolo scorso, sia definitivamente tramontata. Morta, ma sopravvissuta nei rituali, che forzatamente continuano a essere messi in scena.
Per quanto riguarda l’occupazione c’è un aspetto paradossale. I genitori degli occupanti, come quelli di tutti gli altri alunni, si sono risolutamente schierati a favore dei loro pargoli insorti contro il sistema. Negli anni Settanta non sarebbe mai successo. Neppure sarebbe potuto accadere che i giovani si rivolgessero alla polizia e ai giudici per avere ragione… Genitori e poliziotti sarebbero stati oggetto, essi stessi, di contestazione, non certo considerati come potenziali alleati. Trasferendo in ambito educativo un celebre commento di Flaiano, potremmo dire che la scuola vive una condizione grave, ma non seria.
Nel secondo caso, si ha l’impressione che la protesta delle coppie gay non si ponesse contro un codice patriarcale e autoritario di divieti, che è scomparso (e neppure vale la pena di riesumare). Al suo posto, tuttavia, è rimasta una melassa di regole comportamentali che si giustappongono e si contraddicono.
Oggi i giovani implodono, più che esplodere “contro”. Fanno i conti, talvolta con un dialogo interiore dilaniante, con gli ideali dell’Io cui sono stati educati, che sono elevatissimi e spesso irraggiungibili. Se c’è una contestazione, essa è interiore e si esprime nella tristezza degli sguardi e nella rabbia irrisolta, nei disturbi alimentari, nelle ideazioni e talvolta negli agiti suicidari. Per il resto, i giovani sono generalmente educati e dialoganti, ma il corpo e la visibilità nei social sono il cuore delle fragili identità. Più che l’eros (generalmente in regresso, come mostrano le ricerche di Philip Zimbardo), c’è l’estetismo.
La protesta nasce da una questione di visibilità, inevitabilmente connessa al riconoscimento identitario: apparire a un ballo equivale a un “esserci”, con la propria unicità. La violazione del codice autoritario caricava l’erotismo dei giovani del secolo scorso; oggi le identità sessuali, prive di contrasto, sono fluide, come racconta Victoria dei Måneskin in una recente intervista.
Siamo in un momento epocale di cambiamento dei paradigmi, non solo geopolitici, che interroga le coscienze dei docenti e dei dirigenti. Alcuni di loro accettano, senza iattanza, la sfida e sono consapevoli dei limiti professionali che lo Zeitgeist, cioè il tempo storico, impone. Cercano di capire cosa accada, con curiosità e passione. Da loro occorre ripartire.
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