La Camera ha approvato la proposta dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà sulle non cognitive skills. Si è ripreso un iter che era stato interrotto dalla fine anticipata della legislatura. Si è ricominciato da capo e devo ringraziare tutti i componenti dell’Intergruppo che vi hanno lavorato, e in particolar modo la relatrice della legge Giorgia Latini che ha lavorato per sciogliere gli ultimi nodi facendo giungere il progetto di legge a tagliare questo primo traguardo. Adesso tocca al Senato.
Un ringraziamento anche a Paola Frassinetti, sottosegretaria di Stato per l’Istruzione e il Merito, attiva ben prima del suo impegno al ministero nei lavori dell’Intergruppo, e alla Fondazione per la Sussidiarietà che da sempre ci accompagna come segreteria scientifica dell’Intergruppo.
L’idea contenuta nella legge sullo sviluppo delle competenze non cognitive nelle scuole è molto giusta e importante per il miglioramento del nostro sistema educativo. La si potrebbe sintetizzare così: nello sviluppo critico e culturale dei bambini e dei ragazzi non contano solo gli apprendimenti delle discipline (italiano, matematica, fisica, chimica, latino, educazione fisica e musicale, eccetera), bensì anche fattori quali la personalità, il senso critico, le competenze sociali (lavorare in gruppo, capacità di ascolto eccetera), complessivamente, appunto, le “competenze non cognitive”. Le scuole dovrebbero occuparsi di lavorare con gli studenti per favorire lo sviluppo di tali competenze non cognitive tanto quanto di trasmettere i contenuti disciplinari.
Questa impostazione culturale tiene in considerazione l’integralità della persona e la complessità del processo di apprendimento e di sviluppo degli individui. La legge, introducendo la possibilità di una sperimentazione cui le scuole potranno aderire, dà una spinta a un impegno più significativo in questo ambito, per evitare il rischio di ridurre l’esperienza educativa a un esercizio nozionistico. Le scuole coinvolte si impegneranno a individuare le competenze da sviluppare, le buone pratiche per trasmetterle, insegnarle e valutarle, e a realizzare percorsi formativi in questo ambito, anche con il supporto di realtà innovative del terzo settore.
Inoltre si prevede un piano straordinario di formazione per i docenti, in merito ai contenuti di tali competenze e alle migliori modalità di trasmetterne la conoscenza e renderne possibile l’insegnamento. Non si tratta, in questo senso, di introdurre nuovi insegnamenti, bensì di favorire il ripensamento dell’insegnamento delle discipline tradizionali in un modo che attivi e sviluppi le non cognitive skills degli studenti (si pensi, ad esempio, ad un approccio più laboratoriale che consenta agli studenti di sperimentare la modalità di lavoro in gruppo, o a esperienze teatrali e/o artistiche). Tra gli studiosi e gli esperti vi è ormai un consolidato assenso sul ruolo che le competenze non cognitive hanno nel formare persone più consapevoli, più partecipi alla vita sociale e culturale e più produttive in ambito economico.
I lettori del Sussidiario già conoscono il significato e l’importanza delle non cognitive skills, me ne hanno sentito parlare spesso in questi ultimi anni e avranno sicuramente letto quello che in merito ha scritto Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e vero promotore di questa legge.
La preoccupazione che ci ha mosso è stata tutta educativa, cioè quella di aiutare i docenti a porre maggiore attenzione a sviluppare, parallelamente alla trasmissione di conoscenze, le attitudini che possono contribuire alla crescita della persona nella sua interezza. Ritengo, parlando non certo da esperto di pedagogia ma da persona che ha a cuore l’educazione dei giovani, che l’introduzione della considerazione delle non cognitive skills nel processo di istruzione e formazione concretizzi l’idea che in gioco non c’è solo la trasmissione di saperi o competenze, ma l’educazione integrale della persona, che richiede da parte dei docenti una più accurata attenzione allo sviluppo della personalità degli allievi, questione valida sempre, ma emersa prepotentemente durante la stagione pandemica. Questi faticosi anni di didattica a distanza sono stati una verifica soprattutto per gli insegnanti. Si è visto che più efficaci sono stati quelli che hanno saputo occuparsi dei loro allievi non soltanto sul piano degli apprendimenti, ma anche nel sostegno relazionale. Abbiamo verificato sul campo ciò la pedagoga più avanzata sostiene da tempo; il potenziamento delle competenze “non cognitive” o “socio-emotive” integra e migliora le competenze “cognitive”.
La costanza nel lavoro, la stabilità emotiva, la capacità di stare con gli altri, l’apertura mentale, il saper lavorare per obiettivi: tutto questo va educato e quindi valutato. Non si tratta – lo ripetiamo – di aggiungere una nuova “materia”, né di mettere in pagella un voto sulla capacità di autocontrollo o sulla coscienziosità degli allievi, ma di attuare con metodologie sempre più attente quel compito educativo di cui la scuola, insieme alla famiglia si fa carico, cioè di introdurre il giovane alla realtà totale. Il buon senso e la cultura di molti insegnanti ha sempre collegato il risultato all’impegno e alle caratteristiche personali, riconoscendo così l’esistenza di fattori non quantificabili che però incidono sugli apprendimenti. E oggi ciò che era iniziativa del singolo, buona pratica di molte scuole, può diventare metodo supportato da una sperimentazione promossa e monitorata dal ministero. Un passo di modernità e di coscienza del nostro sistema educativo. Grazie a chi l’ha reso possibile.
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