Sono state pubblicate in questi giorni l’ordinanza ministeriale e le linee guida sulla valutazione periodica e finale degli apprendimenti nella scuola primaria, che da quest’anno non sarà più espressa in voti numerici, ma con giudizi descrittivi. La scuola e la società son pronte per un pagella priva di numeri? Basta un articolo di legge perché cambi il sistema di valutazione reintrodotto dalla Gelmini nel 2008?



Due episodi indimenticabili. Uno, in una prima elementare: il primo giorno di scuola un bambino chiede alla maestra: “Domani ci dai il voto?”. L’altro, nella prima assemblea con i genitori della classe prima della scuola primaria. “Maestra – domanda una giovane signora – lei che scale usa per assegnare i voti?”



Due semplici fatti che danno l’idea di quante attese ossessive trascina con sé il voto quando si ignora o si censura che esso non può essere la meta e neppure la strada dell’apprendimento.

Eppure “scuole hanno funzionato – nota Maulini – insegnanti hanno insegnato, bambini hanno studiato (e perfino, sembra, imparato) ancor prima della machiavellica invenzione”, cioè del voto numerico.

Ma chi l’ha inventato questo voto?

L’onore della machiavellica invenzione spetta agli uomini della rivoluzione francese, in particolare ai giacobini e a Napoleone Bonaparte. I rivoluzionari, una volta al governo, riprendono il modello dei collegi dei gesuiti per organizzare il sistema delle scuole secondarie francesi, dimenticandosi della loro opposizione ai seguaci di sant’Ignazio di Loyola. Successivamente, Napoleone, da imperatore, introduce il voto nella scala da 0 a 20. In questo modo ciò che era simbolico per i gesuiti si traduce in un numero, cioè in qualcosa di quantificabile, misurabile, assoluto.



L’uso del voto al posto del simbolo si diffonde subito in altri paesi, senza porsi mai il problema della valenza istituzionale, culturale ed educativa di questa “invenzione”. Neppure la docimologia o “scienza degli esami”, che vede la luce in Francia agli inizi del Novecento, si interroga sul perché la valutazione debba essere misurazione. Ancora oggi “in un contesto di psicometria trionfante, non ci si domanda se la valutazione potrebbe essere qualcosa di diverso, e di più specifico, che non una semplice misura. Ci si rammarica che essa non lo sia effettivamente… e si compiono sforzi per riportarla o metterla sulla retta via della misura rigorosa e scientifica… Il valutatore deve misurare le performances scolastiche come un fisico misura la temperatura di un liquido” (C. Hadj).

Questi brevi cenni storici ci permettono di inquadrare il dibattito in atto: voto “sì”, “no”, “ni”. E non solo per la primaria.

I sostenitori del “sì” si basano su quattro argomenti, le cui parole chiave iniziano con la M. Affermano: i voti in decimali sono una misura semplice e chiara degli apprendimenti; attivano la competizione tipica delle logiche di mercato; rappresentano una giusta ricompensa del merito; motivano gli studenti.

A loro volta, i contrari al voto in numero denunciano la confusione tra valutazione formativa e valutazione “da esame, concorso, gara” presente nei difensori del “sì”; la riduzione della valutazione a misurazione; la censura di molti aspetti del processo valutativo, semplificandolo in formule presuntuosamente risolutive, neutre, “imparziali”. Fanno notare che il voto in decimi: assegna valore solo alla prestazione causando ansia e negando il ruolo dell’errore nell’avventura della conoscenza; etichetta e classifica gli studenti, ostacola la personalizzazione dei percorsi, aizza gli alunni alla competizione selvaggia. Produce, infine, fattori disintegranti la classe, spinge a strategie di furbizia scolastica (copiare, bigiare, bulleggiare), non promuove motivazioni intrinseche.

Quelli del “ni”, invece, avvertano con Ugo Avalle che il problema della valutazione non è tanto assegnare un voto, quanto analizzare tale votazione, capire cosa contiene o sottende, come l’alunno vi sia arrivato, che cosa ha fatto la scuola per condurvelo, quali possibilità egli ha di progredire e quali pericoli esistano che torni indietro”.

La legge 126/2020 del 13 ottobre fa sua la posizione del “no” al voto numerico. I bambini da quest’anno, pertanto, saranno valutati in itinere senza voto numerico e a fine quadrimestre con giudizi descrittivi per ciascuna delle discipline di studio.

La scuola e la società sono pronte per una pagella priva del voto numerico?

Purtroppo, sembra di no. Eppure è il momento opportuno per una revisione profonda della cultura e della pratica valutativa dominata, di fatto, dalla misurazione e dal feticismo del voto. Abbiamo visto nel periodo del lockdown primaverile che è possibile, gratificante, conveniente valutare non solo gli apprendimenti, ma soprattutto per gli apprendimenti. Del resto, come si osservava in un precedente articolo, molte scuole funzionano egregiamente anche senza l’arma del voto. Parafrasando Maulini potremmo dire: “Noi vediamo che gli insegnanti insegnano, i bambini studiano (e perfino, sembra, imparano) anche senza ricorrere alla machiavellica invenzione”.

Naturalmente non basta un articolo di legge perché accada un effettivo cambio di rotta. Occorre innanzitutto una cultura della valutazione pedagogica e, quindi, una pratica condivisa, adeguata e coerente, professionalmente caratterizzata da competenze comunicative e relazionali di alto livello. Questo senza dimenticare che, in un’ottica della valutazione come opera aperta, comune, in divenire, attori sono anche gli studenti e le famiglie. Per un’esperienza di valutazione liberata da pregiudizi, da prassi distorte, dalla tirannia del numero, sono necessari anche la pratica dell’autovalutazione come riflessione critica sull’apprendimento e l’esercizio quotidiano del giudizio costruttivo con feedback efficaci. I bambini, infatti, non hanno bisogno di quantificare gli esiti degli apprendimenti con numeri, ma di essere accompagnati, incoraggiati, apprezzati, approvati dagli adulti e dai compagni e quindi assaporare il gusto di imparare e di conoscere anche a scuola.

Ricordo l’episodio raccontatemi dalla mamma di un bambino all’inizio del secondo quadrimestre della seconda primaria. Quel giorno Pietro aveva portato a casa il compito e l’aveva consegnato a sua madre come al solito. La signora lo sfoglia e vedendo il voto con stupore ed orgoglio esclama: “Hai preso ancora 10, Pietro!”. E il bambino fa: “Mamma, che cosa è 10?”. A Pietro non interessava il numero, ma la soddisfazione di imparare, cioè di ricevere e verificare risposte alle sue domande. Come ogni bambino ha bisogno del giudizio, non della misura. Lui vuole conoscersi ed essere riconosciuto nello sguardo di chi è in rapporto con lui, in particolare delle figure a cui è in special modo attaccato.