L’attenzione alle competenze non cognitive assume significati diversi e prevede ricadute diverse in relazione ai contesti in cui si colloca.

In paesi molto legati alle acquisizioni di skills cognitivi e/o metodologicamente “rigidi” (gli americani, perfetti sulla check list, ma poi incapaci di flessibilità) questa attenzione assume il valore di ampliare gli orizzonti, di ammorbidire o anche di indurire i giudizi, di renderli più onnicomprensivi ed efficaci. È vero anche che nei paesi nordici o anglosassoni – di cui evidentemente si parla – a compensare è presente una più forte tendenza all’operatività, all’individualismo anche in chiave sociale e il minor peso della tradizione culturale da trasmettere.



Uno direbbe che l’Italia è uno di questi paesi, se si guarda all’attenzione che pongono gli insegnanti allo sviluppo dei programmi e all’ampiezza e alla pretesa culturale dei programmi stessi. Attenzione: abbiamo capito che importante oggi non è tanto la cultura della scuola, quanto quella del paese nel suo complesso. E perciò bisogna essere attenti che non si ingeneri una contrapposizione fra “secchionismo” ed esaltazione delle brillanti capacità di cavarsela, anche senza contenuto e senza basi (ricorda qualcosa?). Curioso. L’Italia è il paese che ha forse la più lunga storia culturale, pur se anche per noi i secoli dal 1500 in avanti non sono stati il massimo; i paesi, dalla Grecia all’Egitto, a quelli del Mediterraneo Orientale che l’hanno preceduta hanno registrato poi secoli di stasi e di arretramento.



Eppure non si può dire che l’Italia sia un paese con un buon livello diffuso di cultura. Lasciando stare il discorso sulla scuola, basta guardare a quelli che dovrebbero essere i suoi effetti: lettura, livello degli spettacoli popolari, livello culturale della classe dirigente che si dà. A questo si è aggiunta l’idea che il grande sviluppo scientifico e tecnologico non sia dovuto a una solida diffusa base di conoscenze, ma alle alzate d’ingegno degli happy few informatici e che tutti potenzialmente possono esserlo. Perciò non si sottolineerà mai abbastanza quanto giustamente nel webinar dell’11 novembre ha detto Giorgio Vittadini e cioè che “a parità di conoscenze” il possesso di competenze non cognitive è una grande opportunità; sulla stessa linea d’onda il sottosegretario Ascani, che ha più volte ribadito che le competenze sociali, o come le si vuole chiamare, non vanno separate dalle conoscenze.



Forse poi bisogna fare attenzione che questo giusto orientamento non si leghi troppo ad un profilo professionale che viene sempre speso, che sarebbe caratterizzato da empatia, flessibilità, capacità di collaborare eccetera. Perfetto probabilmente per i quadri delle grandi corporations, ma siamo sicuri che siano le caratteristiche che presiedono allo sviluppo del tessuto imprenditoriale di dimensioni piccolo-medie del nostro paese? E più in generale siamo sicuri che un allievo non empatico, riservato, concentrato su attività di riflessione e/o di autoespressione artistica non abbia il diritto di essere sviluppato in queste sue caratteristiche sia per fare il bene di se stesso che per la società, alla quale magari a modo suo potrà dare un grande contributo?

Da ultimo, l’esperienza insegna che, se si vuole fare accettare qualcosa alla scuola, bisogna partire dall’idea che non c’è nessuno venuto di cielo in terra a miracol mostrare, ma che si tratta di portare ad emergenza, ampliare e sistematizzare quello che alcuni – molti? tutti? – insomma i bravi insegnanti fanno.

Bisogna anche capire però le ragioni non banali delle resistenze e delle opposizioni. I cultori della materia ricorderanno la battaglia fra istruzione ed educazione, almeno in Italia. Semplificando brutalmente, si può dire che il mondo cattolico ha sempre molto sottolineato (e tuttora lo fa) l’importanza del ruolo educativo della famiglia e della scuola, mentre per converso il mondo laico – particolarmente forte soprattutto nella scuola superiore – ha sempre visto questo atteggiamento come paternalista, se non condizionante ed intrusivo e perciò sottolineato che la scuola dovrebbe avere una funzione di istruzione, lasciando poi all’individuo libero le sue scelte valoriali, sulla base delle informazioni ricevute.

Oggi questo tema non è più trattato esplicitamente, visto che il focus è sulle rotelle dei banchi, ma gli atteggiamenti di fondo rimangono, come eredità implicita della cui origine si è quasi smarrito il ricordo. Senza contare che avvicinarsi alle caratteristiche dei soggetti per alcuni può essere gratificante (e fa parte per questi del fascino della professione), ma in altri genera estraneità, fastidio se non timore. E non è detto poi che si tratti di cattivi insegnanti: del resto questo vale anche per gli allievi dei quali una parte, soprattutto in età giovanile, si ritrae da tutte le intrusioni adulte. Così come non è detto che facciano bene il loro lavoro quelli, o più spesso ahimè quelle, che si gettano a capofitto nell’interiorità degli allievi. Non è poi così difficile questo slittamento.

Viene da dire che, per essere efficace, questo giusto orientamento allo sviluppo di competenze non cognitive richiede che la barra sia sempre ben tenuta sulla missione esplicita della scuola, che è poi quella dell’acquisizione di conoscenze ben finalizzate e contestualizzate al soggetto e di capacità utili per poterle utilizzare.

Sembra molto efficace la metafora che pone le conoscenze e le competenze cognitive rispettivamente in ascissa e in ordinata del piano cartesiano di una mente ben formata.