Anche quest’anno il Meeting di Rimini, da sempre attento all’educazione, al lavoro e ai giovani, dedica un incontro a La bellezza del lavoro: una questione (anche) di competenze (oggi, 24 agosto), partendo da esperienze in atto e dialogando con personalità del mondo dell’educazione e dell’impresa.
Ritengo che per affrontare il tema, sfidante per un’economia sempre più competitiva, veloce e digitalizzata, sia decisivo non dare per scontata la prima parte del titolo dell’incontro: la bellezza del lavoro.
Ma il lavoro è davvero bello? Possiamo dire con sincerità che lavorare sia bello? È una domanda che con lealtà deve porsi ciascuno di noi. Proviamo ad uscire dalla retorica e soprattutto dalla cultura in cui la mia generazione è cresciuta. Se ponessimo questa domanda a tutti gli 11mila ragazzi che lo scorso anno sono stati accolti alla Piazza dei Mestieri, nelle sedi di Torino, Catania e Milano, certamente la maggioranza di loro ci risponderebbe di no. Tirerebbero fuori stereotipi sentiti nelle loro famiglie e nei loro contesti sociali per cui il lavoro è principalmente sfruttamento, scarsa retribuzione, non riconoscimento del valore.
Potremmo obiettare che i ragazzi che vengono da noi sono per la maggior parte provenienti da contesti poveri, economicamente, culturalmente e socialmente. Ma non avremmo risultati troppo diversi se la stessa domanda la ponessimo ai ragazzi liceali, a meno di élites numericamente scarse.
Se non proviamo ad affrontare questo tema, il tema del valore, della bellezza del lavoro, credo che parlare di competenze risulti poco produttivo.
Per poter riconoscere un valore occorre essere educati. Per affrontare un tema valoriale occorre ripartire dall’educazione, quell’educazione che permette ai ragazzi della Piazza di rispondere in modo diverso alla domanda precedente, dopo essere stati con noi 3-4 anni, un luogo educativo in cui stanno accanto a dei maestri che non usano parole per raccontare la bellezza del lavoro, ma la incarnano e così la trasmettono.
Oggi l’urgenza dei tempi sta sempre più imponendo al sistema di istruzione e formazione una funzione di “agenzia educativa”. Da un lato ciò deriva dal progressivo indebolimento del tessuto e della capacità di trasmissione valoriale della società civile e della famiglia; dall’altro dalla perdita del primato assoluto che i sistemi formali mantenevano nel campo dell’apprendimento e dalla contestuale richiesta di nuove forme di sapere e di cultura. Si apprende lungo tutto l’arco della vita, con transizioni molteplici e facendo riferimento a una pluralità di agenzie formative, tra cui – in posizione non secondaria – lo stesso mondo del lavoro. Se un tempo la finalità precipua era quella dell’”istruire” (sistema scolastico) e dell’”addestramento al lavoro” (formazione professionale), ora il compito e la sfida comuni sono quelli dello sviluppo del “capitale umano” (uso questo termine sebbene non lo ami), ossia di persone capaci di rispondere in modo non precostituito a continui cambiamenti e problemi, persone capaci di comprendere ed abbracciare il mondo.
Di fronte alla domanda che, come Piazza dei Mestieri, negli anni abbiamo costantemente posto agli imprenditori e artigiani, “quali sono gli elementi di professionalità oggi maggiormente richiesti dal mondo del lavoro?”, le risposte hanno sempre più inequivocabilmente richiamato la priorità dei fattori personali di responsabilità e affidabilità, rispetto a quelli – pur necessari – di preparazione tecnico-pratica, insomma quei fattori che un tempo erano garantiti dal milieu culturale e sociale in cui si cresceva e che oggi costituisce una sorta di spazio vuoto, da colmare secondo nuove modalità. Il quesito per noi si è quindi convertito in: “come dare rilievo ed efficacia in ambito formativo a queste dimensioni? come renderle oggetto di sviluppo formativo e dare loro evidenza sia all’interno – alla persona che è in formazione – sia verso l’esterno, al mondo del lavoro?”. Ma prima ancora, “queste dimensioni sono educabili in ragazzi di 14 anni?”.
L’ipotesi risolutiva, divenuta pista di lavoro, è stata individuata nel fatto che le dimensioni personali devono avere uno specifico rilievo, per poter essere in prima battuta definite ed assunte in sede di progettazione formativa e quindi “messe in valore”, cioè accertate, valutate e formalmente attestate.
Non vorrei entrare nel dibattito, sviluppatosi anche sul Sussidiario, su come chiamare queste competenze (soft skills, character skills, non cognitive skills, socio-emotional skills). Preferisco sottolineare la loro decisività, per noi sperimentata ormai da più di otto anni, sia nell’ambito dell’apprendimento, sia in quello del lavoro, in uno scenario sempre più caratterizzato dal paradigma della flessibilità, del cambiamento continuo, dell’innovazione e della creatività.
Affrontare il tema delle non cognitive skills (NCS) richiede innanzitutto una serietà dell’educatore rispetto a colui che ha davanti, al ragazzo. La persona del ragazzo è qualcuno, non qualcosa da costruire, è uno da scoprire e accompagnare, dotato di un proprio nome, singolare ed unico, che spesso si rivela con fatica. Stando di fronte al mistero che è il ragazzo si scopre che esiste un legame inscindibile tra aspetti cognitivi e non cognitivi in quanto espressione del profilo indivisibile e irripetibile di ogni persona umana.
Sulla base di queste considerazioni si è pertanto deciso di inserire, quale sua interna articolazione, il set di dimensioni soft nel blocco delle competenze tecnico-professionali (relativo alla “professionalità”), come elemento costitutivo e qualificante, dandone evidenza anche negli strumenti attestativi, intermedi (il cosiddetto pagellino) e finali (allegato all’Attestato finale di Qualifica e Diploma).
Le NCS devono avere uno specifico rilievo nell’intervento formativo per poter essere innanzitutto definite e assunte in sede di progettazione formativa, per essere condivise dalla comunità educante (decisivo il rapporto con le imprese, in termini di suggerimenti, sviluppo progettuale,…), “messe in valore”; cioè accertate, valutate e formalmente attestate, sviluppate contestualmente alle altre competenze del profilo scolastico/professionale in uscita, stimolate, approfondite, potenziate, anche attraverso situazioni, esperienze e prove a difficoltà crescente e graduale, ma soprattutto condivise come impostazione con tutti gli attori, coinvolgendo le famiglie, gli allievi, le imprese fin dall’inizio.
Inoltre, non possono essere valutate in astratto, ma devono essere osservate in azione, in un contesto, da un maestro che le fa emergere e le valorizza insieme ad una comunità.
Se dovessi fare una sintesi in termini non didattici direi: per poter far scoprire la bellezza del lavoro occorre innanzitutto un contesto educativo, un luogo capace di accogliere i ragazzi. Ma soprattutto sono necessari degli adulti, dei maestri che possano sfidarli ed accompagnarli a scoprire il loro valore (anche attraverso le NCS), a riconoscerlo e ad essere disponibili a svilupparlo.
Questo è il compito di tutti noi.
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