Andiamo verso il secondo mese di chiusura delle scuole a causa del coronavirus. E a giugno saranno anche tre, tre e mezzo, con l’incognita di settembre (nella conferenza di ieri sera, Conte ha annunciato che riapriranno a settembre). Non sappiamo quando potremo tornare alla situazione pre-pandemia. Sono più di otto milioni i bambini e ragazzi italiani che perderanno un quadrimestre di lezioni e di didattica. Decine e decine di milioni in tutto il mondo. La risposta istituzionale a questa crisi gravissima è stata, come sappiamo, la Dad, che non vuol dire “babbo” in inglese; essa rappresenta l’ennesimo acronimo un po’ ridicolo della cui produzione la dirigenza scolastica è ormai specializzata: “didattica a sistanza”.
Si tratta dell’insegnamento impartito attraverso lezioni fatto dallo schermo del computer di insegnanti seduti a casa loro a studenti seduti a casa loro. Molti insegnanti, soprattutto nei gradi di scuola dove gli alunni sono più piccoli, come la primaria, inviano semplicemente dei compiti, talvolta usando social tipo whatsapp, e li correggono quando tornano eseguiti. Ma per le circolari ministeriali, questa non è ancora Dad.
Sarebbe però il caso di dirlo: essa non è neppure un palliativo alla didattica in classe, ma appena un simulacro di scuola usato spesso in modo errato, per coprire una falla, un’impreparazione a qualcosa che nessuno aveva previsto, e far finta che le cose possano procedere lo stesso. Ma non è così. Basta iniziare dai dati: 6,7 milioni di studenti usufruiscono attualmente della didattica a distanza, 1,6 milioni non può, perché non ha il computer, oppure la linea fissa, o perché nessuno sa aiutarlo a casa: penso spesso ai più piccoli, ai ragazzi che vivono in situazione sociale di disagio, agli stranieri i cui genitori non leggono l’italiano…
Il mantra dell’ultima epoca pedagogica in Italia, l’inclusione, è già disfatto. La Dad è un’accelerazione dell’esclusione, altroché, un’accentuazione del disagio e della distanza tra chi ha i mezzi e chi no, mentre retoricamente si ribadisce che è dovere della scuola non lasciare indietro nessuno e sostenere chi vive una situazione disagiata: gli ultimi, i poveracci. Anche i finanziamenti promessi per coprire il gap di milioni di persone, ancorché ridicoli, arriveranno chissà quando e per di più, anche se i soldi fossero sufficienti, per risolvere un problema di questo tipo sono solo uno degli ingredienti. La parola “formazione” non ci dice niente?
Ma vediamola, la parola fondamentale il cui senso è stato fato a pezzi dal covid-19: tempo. La pandemia ne ha rovesciato il concetto, nel bene e nel male. Ha rallentato il tempo in innumerevoli situazioni e l’ha ridotto in altre. Nella scuola ancor di più. Qui una parola legata al tempo è: programmi. Spesso sono legate nella frase “non ho tempo per finire i programmi” proferita da insegnanti ansiosi. Qualsiasi cosa questi siano – e non sono certo che neppure i vertici ministeriali lo sappiano – sarebbe ora di guardare in faccia la realtà e il tempo, e venire così ad alcune soluzioni veramente realistiche della scuola in questi mesi.
Se il ministro ne avesse una visuale reale, infatti, semplicemente dovrebbe dire che i programmi sono sospesi. Basta, per quest’anno non li si considera più. E, insieme ad essi, non si fanno interrogazioni, verifiche, votazioni e valutazioni. Sospesi. Si riprende tutti a settembre, quando ci sarà il tempo di recuperare. La pandemia non è forse come una guerra? Durante le guerre la scuola è sospesa, no? Facciamolo anche noi. L’unica eccezione che si potrebbe prevedere è quella del quinto anno della maturità, perché c’è l’esame e poi il tempo-scuola sarà finito. Intanto i ragazzi di quinta sono maggiorenni, o quasi, mancano loro tre mesi e mezzo su cinque anni di scuola, e al programma in questo caso una toppa si può mettere, dato che il più è fatto.
Invece vediamo tutt’altro. Dirigenti scolastici, punzecchiati da circolari ministeriali che spesso si contraddicono, punzecchiano a loro volta i docenti perché facciano la Dad, diano i voti, interroghino e completino il programma, giungendo persino a minacciarli di sanzioni disciplinari; docenti spaccati tra frustrati e insofferenti da una parte e iperattivi dall’altra, più che altro a mostrare sui social ufficiali e no la loro bravura, le meravigliose attività che stanno facendo fare anche da casa, la loro efficienza: non c’è niente da fare, dal Libro Cuore a oggi la sindrome da primo della classe ci è rimasta attaccata peggio del covid-19. Ma sul programma addirittura c’è l’ansia dei genitori, misteriosa e terribile, la strana schizofrenia di mille mammine di sostituirsi ai docenti perché a casa ci sono loro, e allo stesso tempo la frustrazione di non riuscirci.
Bisognerebbe rovesciare tutto, come è rovesciato il tempo. I genitori dovrebbero ritirarsi in buon ordine, ammettendo semplicemente che quello non è il loro lavoro e che è loro diritto non farlo: la Dad è questa meravigliosa panacea? Be’ allora si arrangi. Le famiglie hanno sempre avuto in realtà una forte possibilità di pressione politica, anche semplicemente astenendosi gandhianamente dal fare ciò che non è loro compito fare. Sarebbe un ottimo segnale. I docenti dovrebbero sospendere le pretese e tornare forse alla loro vera natura, che è quella di maestri, una volta innamorati della loro disciplina, scientifica o umanistica che sia. Un maestro sa che innanzitutto deve ai suoi ragazzi una relazione, per cui ben vengano i collegamenti online, ma servano appunto a mantenere una relazione educativa e umana. Magari potrebbero raccontare come si sono innamorati della storia, della letteratura, della matematica, consigliare un buon libro, una musica, un film e darsi appuntamento per parlarne, per confrontarsi, senza voti, senza valutazioni né ansie da prestazione. Potrebbe essere l’occasione per la scuola di riscoprire il suo spirito originario.
I dirigenti dovrebbero ritornare ragionevoli, e basta, e uscire dal loro stato di campagna elettorale permanente, che nella scuola si chiama open-day. E il ministro, se davvero vuole migliorare l’immagine della scuola e la sua competenza nel guidare i giovani in mezzo alle temperie del mondo, dovrebbe avere il coraggio di operare due cambiamenti. Il primo, emanare un’unica, semplice circolare di sospensione di programmi, valutazioni e pagelle, con la condizione di rimandare, con maggior lena e impegno, il loro adempimento al prossimo anno scolastico. Il secondo, cambiare rossetto.