Da tempo per avviare i miei studenti più grandi ad una riflessione sulle grandi questioni della vita morale cristiana, uso far vedere una scena del film La Rosa Bianca (regia di Marc Rothemund, 2005). Si tratta di quella in cui viene ricostruito uno dei drammatici interrogatori che Sophie Scholl subisce ad opera del famigerato poliziotto Mohr. Subito dopo la visione, prima ancora di addentrarmi nella ricchissima serie di spunti che la scena offre a diversi livelli, chiedo agli studenti chi e per quale motivo, tra Sophie e Mohr, gli è sembrato più libero. Provo così a verificare a caldo il loro livello iniziale di discernimento rispetto alla posizione morale degli attori in gioco nel dramma rappresentato.
Ebbene, fino a qualche anno fa la preferenza degli studenti, anche solo per una naturale simpatia con il personaggio, era scontata e totale per Sophie. Anche se questo orientamento dei ragazzi rimane prevalente, da un po’ di tempo cresce il numero di coloro che attribuiscono una condizione di maggiore libertà al nazista. Questi sostengono che il poliziotto è più libero perché esercita un potere di vita e di morte su Sophie, che non ha invece nessuna possibilità di scelta e di salvezza.
Solo quando emerge nel dialogo con i ragazzi che anche Sophie ha potuto scegliere, pur nella sua apparente impotenza, rifiutando la proposta di Mohr di salvarsi tradendo il fratello, gli studenti iniziano a capire che la libertà vera ha a che fare con qualcosa d’altro.
Sì, quella davvero libera alla fine è Sophie perché obbedendo a Dio nella sua coscienza e sacrificando la sua vita, disinnesca la logica nazista con la gratuità del suo gesto d’amore, come aveva fatto Padre Kolbe ad Auschwitz un paio di anni prima. Mohr, al contrario, basa la sua identità sull’essere una semplice pedina nel dispositivo nazista, un anonimo burocrate del male, mero esecutore di ordini superiori. Egli stesso lo scopre nel corso dell’interrogatorio, cedendo all’indomabile forza morale di Sophie, radicata in un Potere ben superiore di quello conferito a lui dal partito nazista.
Insomma, nell’interrogatorio rappresentato si ripete la storia del processo a Gesù e, senza aiuti da parte mia, i ragazzi si accorgono facilmente della scelta del regista che chiude simbolicamente la scena con Mohr che come tutti i Ponzio Pilato della storia, avendo eseguito il suo “dovere”, prova a liberarsi di quella ragazza lavandosi le mani. Ma proprio come accaduto a Ponzio Pilato, l’incontro con Sophie ha segnato Mohr per sempre, destando la sua coscienza di uomo a partire dal sentimento paterno che nutre per la ragazza.
Tutto questo i miei studenti lo riconoscono benissimo e dopo neanche tante riflessioni, ma aumenta in me la domanda sul perché molti di loro ritengono istintivamente che la persona libera sia solo quella che esercita un potere sugli altri e può scegliere a proprio piacimento senza preoccuparsi se lo scopo che persegue è buono o no, vero o falso.
La risposta può stare in quello che scrive don Luigi Giussani nel Senso religioso: “il positivismo che domina la mentalità dell’uomo moderno esclude la sollecitazione alla ricerca del significato (…) vorrebbe imporre all’uomo di fermarsi a ciò che appare. E questo è soffocante”. E di primo acchito, chi può negare che la vita appaia solo come un insensato e vorticoso scontro di forze contrastanti (sociali, biologiche, affettive, politiche, etc.)? Da questa prospettiva, libero è colui che ha più controllo sulle potenze in gioco.
Anche noi adulti viviamo in questa atmosfera culturale soffocante e, più o meno consapevolmente, la incrementiamo a volte con i nostri discorsi e le nostre azioni. Tuttavia, anche se magari non ne parliamo temendo di mostrarci deboli, come i più giovani percepiamo con tristezza la menzogna ultima di questa visione rispetto al nostro vero desiderio, anche perché sperimentiamo che non si ha mai abbastanza potere per governare persone e cose secondo il proprio progetto e che intanto la vita sfugge tra le mani.
Soprattutto nei ragazzi, questo sentimento della realtà genera una profonda ansia: quella di non essere mai abbastanza capaci e di non fare in tempo. Non si tratta di quella sana inquietudine che muove alla ricerca del significato, ma della paralizzante preoccupazione per il risultato. Ciononostante, questo senso di impotenza, anche se vissuto con dolore, spesso in silenzio o urlato rabbiosamente, è anche una crepa favorevole per chi vuole testimoniare con la propria vita uno sguardo più umano e libero sulla realtà. Per farlo bisogna prima aver incontrato nella propria vita delle persone libere come Sophie e seguirle.
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