Ai tempi in cui ci si trovava ancora con gli amici, mi capitava di prendere la chitarra e cantare Gaber. Il confronto con l’originale, ovviamente, risultava impari: l’unico valore aggiunto poteva trapelare proprio dall’interpretazione live. Ma adesso che le serate in compagnia sono bandite, non sarebbe presuntuoso che in streaming io mi ostini a scimmiottare Gaber anziché mostrare l’originale?
Immagino si metta in discussione anche un prete che celebri la Messa di Pasqua mentre in tv gli fa concorrenza il Papa. Ovvio che nessuno intenda lasciar estinguere la fiammella languente della comitiva, della parrocchietta, della classettina, ma ora che rete e televisioni e case editrici e università e musei ci inondano con un fiume di lezioni chiare, ritmate e animate, un povero insegnante cosa spiega a fare? Ora che tutti si improvvisano youtubers e non è rimasto più un angolo di silenzio, a cosa serve riprodurre serialmente mille Paolo e Francesca o mille Dorian Gray? Nel tempo in cui la relazione tra scuola e studente è identica a quella tra montagna e Maometto, potremmo piazzarli tutti davanti a Mamma Rai e al dottor Google, e poi veicolarci le migliori autoproduzioni del sottobosco indie degli insegnanti.
Parafrasando un celebre titolo di Walter Benjamin, siamo all’ora di lezione “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Che a tanti fa comodo, peraltro, e non certo ai docenti che non sono in grado di accendere un tablet ma nemmeno un interesse. Gli ottimistici cantori dell’opportunità covata dalla crisi si gloriano dell’illimitata possibilità di riciclo: una volta caricata nel loro freezer digitale la videolezione sull’Infinito di Leopardi, se la troveranno già spiegata per sempre.
È d’altronde possibile che in futuro non debbano scomodarsi nemmeno a scongelarla, visto che un giorno, oltre a risparmiare tempo, si potrebbe risparmiare anche sul personale, facendo a meno di loro. Non è mai troppo tardi. Il rimpiazzo degli “umani con gli algoritmi” paventato da Harari in Homo deus non è fantascienza distopica, ma la storia di mestieri diventati di colpo inutili, come i negozietti travolti da Amazon e le agenzie fagocitate da Booking.
Così l’insegnamento, che un po’ malaticcio è sempre stato, in questi giorni contrae un virus invisibile e rapidissimo proprio attraverso i canali di un impero culturale che ostenta tutta la parvenza del pluralismo: l’ulteriore appiattimento della conoscenza sulle informazioni, dello spirituale sul virtuale. Più che mai in questione è la natura dell’apprendimento, perché chi conosce è un soggetto che si protende verso il proprio drammatico compimento, non può ridursi a consumatore di contenuti intellettuali. Con la scuola a distanza finalmente “guardi quello che ti va proprio quando ti va. E se vuoi la spegni”. Lo scoramento più atroce, allora, è sentirsi intercambiabili, come ante dell’Ikea rispetto ad antichi falegnami che costruivano su misura.
Il buon senso obietterebbe che la scuola è una faccenda diversa, perché la parentesi emergenziale si chiuderà, e comunque il rapporto fisico non potrà mai essere surrogato da alcuna modalità telematica. Siamo d’accordo, ma peccheremmo di ingenuità se limitassimo il plusvalore della scuola in presenza alla familiarità in mezzo ai corridoi, davanti alle macchinette, al cambio dell’ora, durante la ricreazione, nei bagni, all’uscita. Anche con il tabaccaio era bello scambiarsi due chiacchiere, ma la ricarica fai da te e poi l’addebito periodico non ce le fanno rimpiangere. Senza parlare del fatto che uno studente medio ci tiene a confidarsi con l’insegnante quasi quanto un cittadino medio vuole aprirsi con l’addetto dell’ufficio postale. Basterebbe censire le fotocamere disattive: da settimane alcuni alunni sono divenuti per me misteriose entità sovrannaturali, alla cui esistenza credo ormai per pura fede, le cui rare epifanie non sono più che flebili voci echeggianti dall’etere: “vere tu es studens absconditus…”.
A mancare non è appena il contatto umano come contorno delle lezioni: non si tratta della battuta dal barbiere o del buongiorno dal giornalaio. Perché l’insegnante che parla della guerra dei trent’anni o delle derivate o della terza declinazione non eroga un servizio come un autista, né richiede prestazioni come una palestra: la sua vocazione è svegliare l’io degli studenti, stanarlo dal suo eterno lockdown.
L’ambiente scolastico è il contorno (sia pur spesso decisivo) dell’essenziale, ma l’essenziale è l’ora di lezione. Purché si stia insieme può essere piacevole frequentare una certa pizzeria, sebbene altrove si mangi meglio: nel mondo del Food Delivery, però, chi si ostinerebbe masochisticamente con un pizzaiolo incapace? Ridotta all’osso, quel che conta è se la pizza è buona o no, se la lezione è buona o no: non abbiamo altro. Vale la pena collegarsi, insegnare e studiare se la lezione ha qualcosa da mettere a tavola rispetto alla fame dell’anima, che è fame di senso: fame sì di legami, ma non di legami qualsiasi, bensì di legami significativi, portatori di senso.
Tutto si gioca nella lezione nuda e cruda: se porta dentro una “scoperta dell’essere”, come mi ha scritto la mamma di una mia alunna, se a un tratto qualcosa scuote docenti e studenti dal torpore, illuminando la consapevolezza di sé e delle cose. Ecco il punto infuocato di questo frangente scolastico: far presente che da qualche parte – insostituibile e irriducibile – è nascosto l’io.
Non solo il mondo avverte priorità più rilevanti, ma a gran parte degli stessi insegnanti questi paiono discorsi superflui o incomprensibili (nonostante costituiscano il contenuto e il motore di ogni argomento scolastico). Eppure una preside di Bergamo ha raccontato che nella sua scuola “la didattica a distanza si è inceppata, avvitandosi su se stessa dopo un’iniziale e scoppiettante partenza. Non sono stati problemi tecnici a farla implodere, e nemmeno forse quelli legati ai limiti culturali o strumentali di alcune famiglie. È stato proprio il virus. Un virus che qua ha falciato nonni, madri e padri in quasi tutte le famiglie dei miei studenti e dei miei docenti. Un’ecatombe. Da qui il crollo psicologico, il dolore chiuso dentro le case che rimbalza senza poter uscire, nemmeno via web. Un dolore che annulla ogni voglia di pensare al dopo. Qui nessuno canta sul balcone. Qui nessuno si sente tra i salvati. Insomma, il terrore, la depressione, lo smarrimento hanno fortemente influenzato l’iniziale slancio didattico e tutta la buona volontà degli insegnanti e degli alunni. Dovrò lavorare su questo, adesso, e non sui device o sugli aspetti tecnici. E non so da che parte cominciare… perché non ne sono capace”.
La normale lezione ha qualcosa da dire a questo dolore? è capace di fare compagnia alle croci che ognuno deve portare? di strappare i ragazzi da quella metonimia del nichilismo che si chiama divano? oppure riempie il tempo come una sana variante della PlayStation? Con il muro della morte a pochi metri e gli stipendi andati in fumo, ci preoccupiamo soltanto di mandare avanti i programmi? Mentre aumenta l’atrofia del cuore, stabilizzatosi ormai nel suo habitat di atarassia che può fare a meno dei funerali e perfino della serie A, non sappiamo far altro che cavillare sulla legittimità delle valutazioni?
Sulle cose che contano non girano tutorial, ma di sicuro nella scuola virale e postvirale non basterà il richiamo di retroguardia all’importanza della socialità e la retorica di quanto sarà bello riabbracciarsi, bensì la riscoperta che non solo a latere dell’esperienza didattica, ma al suo nucleo elementare urge un’ora di lezione che – in aula o in video – sia un avvenimento unico di conoscenza, che – vedendo il volto oppure no – riesca a scorgere l’anima e a riaccenderla. Il banco di prova è quel che succede dietro le quinte, come sempre: lì, a schermi spenti, c’è ancora qualcuno?