Settembre segna ogni anno una tappa decisiva per la vita di tutti gli studenti. È il momento del ritorno, non solo a casa ed alla quotidianità dopo le vacanze, ma è soprattutto il mese del rientro a scuola. Ascoltando bambini e ragazzi ad ogni settembre si raccolgono considerazioni, preoccupazioni ed aspettative, non di rado appesantite dall’angoscia o dalla paura per le difficoltà che si associano ad ogni inizio.

“Dimmi che è ancora agosto!” mi chiedeva pochi giorni fa una bambina affaticata dall’idea di un nuovo anno, in una nuova scuola, con compagni ed insegnanti sconosciuti. A questa richiesta, che seppure inespressa è la stessa di molti studenti, rispondevo: “Pensiamoci insieme”.

Soffermandomi su quanto le avevo appena detto, osservavo che la stavo invitando a pensare, a servirsi del suo pensiero come mezzo per orientarsi tra i timori che l’avevano assalita. Ecco sì, le stavo suggerendo di fare uso del suo pensiero come di una bussola, mentre le offrivo la mia compagnia nella navigazione.

A questa prima considerazione ne seguiva una seconda, e cioè quanto poco apprezzamento riceva ovunque, scuola compresa, il pensiero, quell’attività quotidiana, che ci accompagna nelle ventiquattro ore di ogni giornata, compresa la notte, quando prende la forma del sogno. Come del respiro, altrettanto quotidiano e continuo, così del pensiero ci si accorge solo quando “qualcosa” non va più.

Troppo scontato per ricevere attenzioni in condizione di normalità e troppo complesso da sondare in caso di disturbo, il pensiero finisce per essere trascurato dall’uomo comune e ricondotto alla competenza dei soli professionisti della salute psichica.

Sovente, al di là dei buoni propositi e delle dichiarazioni di principio, neppure la scuola risulta immune da questi antitetici e nel contempo speculari atteggiamenti verso il pensare, attanagliata tra la preoccupazione di assicurare la didattica, la verifica delle acquisizioni e ormai sempre più docile nel lasciare agli psicologi la titolarità esclusiva di ascoltatori degli studenti.

È di questi giorni la dichiarazione del ministro Bianchi sulla necessità di introdurre stabilmente nella comunità educante la figura dello psicologo, per studenti e docenti. Un’affermazione condivisibile a condizione di una precisazione: il pensiero è competenza di ognuno, ed il pensiero di uno studente riguarda anche l’insegnante.

Troppo spesso invece i ragazzi arrivano agli sportelli psicologici scaricati dalla comunità scolastica che si sente impreparata, quando non è invece disinteressata, a prestare orecchio e corpo a racconti che sono senz’altro complessi, ma che hanno – a saperle riconoscere – la freschezza e semplicità della domanda di partner con cui cercare soluzioni. Al contrario di quanto si creda comunemente, questi sportelli d’ascolto – che osservando l’esperienza, ormai da tempo ho rinominato “thinking space”, spazi per pensare – sono particolarmente gremiti non tanto nelle scuole cosiddette disagiate, ma in quelle in cui gli studenti hanno già incontrato in classe, nei docenti, soggetti pronti ad ascoltare e a suggerire approfondimenti, rilanciando gli interrogativi senza l’urgenza di sedarli con note ed insoddisfacenti risposte pedagogiche. D’altra parte non è difficile riconoscere che incontrare qualcuno interessato al pensiero, proprio ed altrui, sollecita a fare altrettanto.

Ad allargare la questione si potrebbe osservare che la scuola altro non è – o non dovrebbe essere – se non un thinking space, luogo fisico ed umano finalizzato alla promozione del pensiero, proprio come suggerisce l’etimologia del termine. Pensare deriva infatti dal latino pendere, da cui pensum, parola con cui veniva indicata la quantità di lana giornalmente consegnata ad una filatrice perché dal biòccolo producesse filo. Così la scuola, a volerlo e a saperlo realizzare, potrebbe offrire ogni giorno conoscenze, notizie, riflessioni, elaborazioni dei docenti, insieme all’esperienza dell’incontro con coetanei ed adulti, quali materie prime.

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