David Steiner, direttore esecutivo del Johns Hopkins Institute for Education Policy di Baltimora, parlerà domani (30 maggio) all’Università di Bergamo di un tema molto caldo: Una ritirata dalla conoscenza? La strana condizione dell’istruzione negli Stati Uniti. Ha buttato il cerino nella benzina il suo recente libro Nation at Thought: Restoring Wisdom in America’s Schools (Rowman & Littlefield, 2023), che invita a “ripristinare la saggezza” nelle aule di studio, contro gli ideologismi e le censure che le hanno invase (sarà tradotto in Italia da Studium).
Da oggi, 29 maggio, a sabato 1° giugno l’Università di Bergamo ospita la Atee Spring Conference 2024, sul tema La ricerca sulla formazione degli insegnanti in Europa: tendenze, sfide, pratiche e prospettive, presenti 360 ricercatori provenienti da più di 40 Paesi. Ad aprire i lavori sarà proprio il discorso di Steiner.
Steiner proviene da una delle famiglie più in vista nell’insegnamento universitario di tutti gli USA: nato a Princeton, è figlio del famoso George Steiner, ebreo franco-americano, considerato il massimo critico letterario del Novecento (è morto nel 2020); sulle orme di suo padre, David ha continuato a studiare il rapporto che lega strettamente cultura e società.
Professore, lei scrive che l’educazione ha smarrito la strada. Cosa è successo e quando?
Dal punto di vista etimologico la parola “educazione” significa portar fuori in direzione di qualcosa: dunque non verso il nulla. Negli Stati Uniti in questi anni domina quello che chiamiamo “costruttivismo”, o “educazione centrata sul ragazzo”. Gli adulti hanno deciso che non possono più selezionare una storia o un contenuto o un’immagine o una qualsiasi credenza riguardo al mondo. In altre parole, abbiamo fatto un passo indietro rispetto alla responsabilità fondamentale di insegnare, che significa dire e trasferire alle nuove generazioni tutte le cose che consideriamo importanti.
L’educazione non ha più una direzione?
Io penso che se tu smetti di fare questo lavoro di selezione, allora non sei più un insegnante. Negli ultimi vent’anni negli Stati Uniti si è cercato di evitare questa responsabilità, rimpiazzando l’educazione con ciò che chiamiamo “skills”, competenze, abilità: gli antichi greci le avrebbero definite come le cose che sanno fare i lavoratori di più basso livello, la superficie delle nostre conoscenze. Sapere come fare le cose, come compiere dei lavori manuali per i greci non era un mestiere da uomini: gli uomini dovevano essere capaci di pensare, di immaginare, di imparare. In America oggi a noi fa paura dire “questo ha un valore”, questo merita di essere visto, di essere pensato, e quest’altro no. Abbiamo paura di giudicare.
Una critica non da poco.
Niente di originale; seguo le orme di Hannah Arendt, filosofa che nel lontano 1954 scrisse un famoso saggio che oggi non è più tanto letto, La crisi dell’istruzione, in cui già sosteneva che gli adulti ormai si rifiutano di assumere responsabilità educative.
I problemi del settore istruzione dipendono da questo difetto di responsabilità?
Insegnare è un atto che dice: questo sì e questo no. Negli Stati Uniti noi non abbiamo mai avuto un programma di studi statale ufficiale, ogni professore compone da sé quello che intende insegnare agli studenti, piluccando su Google: e l’educazione cambia, dunque, a seconda dell’insegnante che hai la ventura di incontrare. Gli esami non possono valutare i contenuti di quello che sai. Tutto quello che facciamo è sottoporre i ragazzi a qualche prova di abilità, ad esempio “cerca l’idea principale che è espressa in questo testo”: non importa che tipo di testo sia, potrebbe essere qualsiasi cosa, anche il retro di una scatola di Rice Krispies.
Lei scrive che l’educazione di oggi è noiosa.
Per forza. Sia la destra che la sinistra mettono molta pressione su ciò che insegniamo. Dunque per non offendere né l’una né l’altra, non si insegna più niente di significativo. Non possiamo usare libri che disturbino qualcuno, perché i genitori verrebbero a scuola a protestare: “Cosa state insegnando ai nostri ragazzi?!”. Ma la verità è che i libri importanti sono disturbanti. Per questo motivo li leggiamo. Oggi in America c’è un nuovo “diritto umano”, che non è scritto nella nostra Costituzione ma vige ugualmente: il diritto di non essere turbati. Si pretende di sterilizzare tutto, di essere sicuri che non ci sia niente di troppo aggressivo, e il risultato è naturalmente una grande noia. La cosa strana è che la cultura attorno alla scuola è al contrario molto violenta, piena di rabbia; dunque, la scuola sta diventando un ambiente non solo noioso ma anche artificiale, irreale.
In effetti questa parola “skill” sta entrando prepotentemente anche nell’italiano: non è un bel segnale, ci sta dicendo?
Se si chiede a un professore americano che cosa è davvero importante insegnare non risponderà matematica o fisica o letteratura, dirà piuttosto: “pensare in maniera critica”. Questo suona come una buona cosa, ma fermiamoci un attimo: se non insegniamo contenuti, come posso pensare in maniera critica il nulla? Naturalmente bisogna pensare in maniera dialettica, ma occorre prima pensare a qualcosa. Se abbiamo bandito dall’educazione tutti i contenuti, per paura di offendere qualcuno, il pensiero critico di per se stesso è un esercizio stupido. Non è neanche pensiero.
Lei scrive anche che la passione deve essere considerata un elemento fondamentale dell’educazione.
Nietzsche dice che gli adulti dovrebbero cercare di riscoprire l’intensità, la passione di un bambino che gioca. È fondamentale per imparare. La passione è l’opposto della noia. La crisi attuale dell’educazione è legata al fatto che la gran parte degli insegnanti non sono affatto presi dal contenuto di ciò che studiano, sono loro i primi ad annoiarsi. In America se tu chiedi a un professore perché insegna non ti risponderà mai “perché amo la matematica”, o “amo la storia”. Ti dicono: “Perché amo i ragazzi”: ma questo è un errore! Per prima cosa l’educatore deve amare la propria materia, amarla tanto da volerla insegnare a qualcun altro.
Il suo paese è da sempre un esempio di Stato multiculturale. Ora anche da noi etnie, idee, religioni si stanno mescolando. Lei pensa che abbiamo ancora bisogno di una linea educativa?
Sì. È una questione molto difficile ma anche molto importante: noi oggi pensiamo che in questa situazione dobbiamo insegnare tutte le differenze, ma è impossibile. Io sono stato il preside del grande Dipartimento dell’istruzione dello Stato di New York, migliaia di studenti, che parlavano più di cento lingue: non si possono insegnare cento culture diverse a scuola. Per “rispettare gli studenti”, a Baltimora, dove circa il 90% degli studenti è nero, dovrei insegnare la storia degli afroamericani, a Houston quella degli ispanici, a Boston quella di coloro che fuggivano dall’Europa, io che sono ebreo dovrei studiare solo il Vecchio Testamento, e magari ignorare la scienza. E poi oggi non puoi neppure dire “ispanico”, devi specificare se quel ragazzo è cubano, dominicano, o sudamericano. La differenziazione non ha più fine. Le politiche identitarie sono sempre più frammentate. Oggi si pensa che l’educazione debba essere come uno specchio, devi vedere riflesso te stesso nel programma, altrimenti vuol dire che ti sto insultando, che sono brutale, che non ti sto rispettando.
Invece cosa bisognerebbe fare?
La questione – che non è di moda, lo ammetto – è invece quella che metteva in luce il presidente John Kennedy, quando nel 1963 diceva che “tutti noi respiriamo la stessa aria”, nelle nostre vene circola lo stesso sangue: tutti abbiamo desideri e paure, sogni e speranze, tutti siamo nati e tutti moriremo. Noi siamo per prima cosa, e anche per ultima, esseri umani, aldilà delle nostre differenze. Il contenuto dell’educazione riguarda questo nostro essere umani. Nelson Mandela quando era in prigione in Sudafrica mise in piedi una recita di Natale portando in scena la tragedia di Sofocle Antigone. Ora, perché un africano nero, che si ribella contro l’apartheid, dovrebbe usare questa vecchia narrazione bianca morta e sepolta? Lui diceva che quell’opera gli aveva insegnato di più sulle regole dispotiche, la struttura della famiglia, le questioni di genere, di politica, di religione di qualsiasi altro discorso. In altre parole, quel testo teatrale di 2.500 anni fa è qualcosa di universale.
Dunque, cosa dovrebbe essere l’educazione?
lo vivo a Baltimora, la direttrice nera delle scuole pubbliche dice che i contenuti dell’educazione devono essere “specchi e finestre”: specchi in modo che i ragazzi neri possano vedere e conoscere la loro propria cultura, ma anche finestre in modo che possano vedere la condizione umana più in generale. Questo mi pare un tentativo interessante di bilanciare il particolare e l’universale. L’educazione è insegnare l’umanità degli uomini.
Questa umanità non viene più insegnata?
Oggi quest’idea è perduta e siamo in una situazione disperata: ma cercare di insegnare a te a partire solo da quello che tu stesso sei non è educazione, è solo una forma di blandizie politica. Se l’educazione è vincolata al colore della mia pelle o a ciò che credono i miei genitori, essa è anche un mezzo per creare e incrementare il narcisismo. La tua educazione servirebbe a fare in modo che tu sia sempre più fiero di essere te stesso, ma questo stravolge completamente l’idea stessa: “educare” in latino significa “tirarti fuori da te”, post tenebras lux, oltre le ombre la luce. Oggi invece in America noi celebriamo le ombre nelle quali ci troviamo. Questo a me sembra l’errore fondamentale, un vero tradimento.
Cosa abbiamo lasciato indietro?
Abbiamo fatto fuori l’etica. Ed è ancora meno considerata l’estetica. Ma se tu non esponi i ragazzi a cose belle, attraverseranno la loro vita senza nessun senso della bellezza, che è uno dei regali più straordinari dell’essere umani. Se non avranno mai fatto l’esperienza di imparare ad ascoltare un grande brano di musica, di guardare un capolavoro dell’arte pittorica o plastica, finiranno per vedere il mondo in bianco e nero invece che a colori. John Stuart Mill diceva che noi mettiamo sempre in discussione l’educazione che abbiamo ricevuto, ma nessuno di noi ridarebbe indietro ciò che ha imparato.
La crisi della nostra educazione rischia di avere degli effetti pericolosi anche sulla stabilità delle nostre istituzioni democratiche.
Sì, questa è una grandissima questione. Il filosofo politico Schumpeter, per esempio, dice che in una democrazia è una cosa sana quando la gente non vota: significa che non ci sono grandi preoccupazioni e che sta funzionando. Penso che questo sia stato vero negli anni passati, ma quando le divisioni all’interno della società diventano molto profonde, come sta accadendo negli Stati Uniti, allora quella indifferenza non è sana. E neppure non curarsi dei problemi educativi è sano, è una questione che dovrebbe essere al centro del dibattito pubblico.
Perché?
Se tu non hai ricevuto un’educazione adeguata, l’unica cosa che puoi fare è strepitare. In America se non sei istruito oggi sei molto vulnerabile rispetto a gente che urla molto forte. E che punta ai tuoi istinti animali più bassi. Donald Trump capisce questo, capisce che può mobilitare gli istinti dell’America ignorante: a parte alcuni multimilionari che lo votano per i loro personali interessi, il grande sostegno gli arriva da cittadini che non hanno mai messo piede in università.
La crisi dell’educazione è colpa degli insegnanti?
Io penso che gli insegnanti siano animati dalle migliori intenzioni, non vogliono imporsi, non vogliono dire a un ragazzo “leggi Sofocle” se la sua cultura non è quella di un greco antico. Ma di fatto accade che preparino dei ragazzi che non avranno risorse interiori. Persone come Martin Luther King, Malcolm X, Nelson Mandela hanno scosso davvero il nostro sistema sociale, e hanno tutti dato grande valore all’educazione classica. Malcolm X non era molto istruito, ma quando fu messo in prigione si mise a studiare da autodidatta. Le lettere di Martin Luther King sono piene di riferimenti a Platone e ad altri autori classici. Il motivo per cui il suo famoso discorso I have a dream è stato così potente è tutto il sapere che lui ha usato per costruirlo. La gente pensa che la cultura classica sia roba per conservatori, roba tradizionalista. Io credo invece che i valori umani universali siano la cosa più essenziale per coltivare un pensiero radicale. Noi oggi pensiamo di fare qualcosa di molto progressista, che stiamo facendo fuori quella robaccia “da uomini bianchi” e la rimpiazziamo con il rispetto per i ragazzi. No, non stiamo rispettando i ragazzi, stiamo oltraggiando la conoscenza. Quando Stalin mandò migliaia di russi in Siberia, nei gulag, questi difendevano la loro umanità con la poesia di Anna Achmatova che avevano mandato a memoria, o con le opere di Cechov; quei testi hanno permesso loro di rimanere umani. La conoscenza era loro compagna nei lager. E amica.
La democrazia ha bisogno di un popolo consapevole.
Già Aristotele, nel Libro VII della sua Politica diceva una cosa molto semplice, ma che mi sembra molto vera: nei regimi autoritari l’educazione è meno importante. Ciascuna Costituzione – dice – ha bisogno di una differente educazione: ce n’è una per i regimi autoritari, e una per la democrazia. Aristotele non credeva nella democrazia, ma sapeva che i due aspetti, quello educativo e quello politico, sono strettamente collegati. Sostanzialmente oggi noi non educhiamo più le nuove generazioni, ci preoccupiamo soltanto di assicurarci che sappiano usare gli strumenti multimediali. Non è molto.
“Skills”, appunto. Educare è un’altra cosa.
Dobbiamo di nuovo credere che c’è qualcosa di importante nel nostro essere umani, e non nel fatto di essere bianchi, neri o gialli, americani o europei o afrodiscendenti o cinesi.
In fondo è poi l’unico modo per empatizzare realmente con chi è diverso da te.
Sì, esatto. È una questione molto seria. Se non hai un criterio “umanistico”, alla fine il gioco della vita si risolve sempre in un’equazione molto semplice: io contro di te. Quando ero bambino in Gran Bretagna, c’era una vecchia pubblicità della birra Guinness che diceva: “A me non piace, perché non l’ho mai assaggiata”. Questo è un po’ l’esito dell’educazione americana oggi: tu non mi piaci perché non so nulla di te. Le persone che non sono educate al senso di una umanità comune che ci lega, quando pensano che le cose vadano male si scontrano, si arrabbiano, si attaccano, ed è ciò che vediamo nella società americana oggi, un sacco di odio, di sospetto, di paura, perché la paura e l’odio sono molto vicini: non ti piace ciò di cui hai paura e hai paura di ciò che non ti piace. Rimaniamo stranieri ed estranei, e così la funzione sociale della scuola è perduta.
(Carlo Dignola)
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