Come ben sa chi si occupa di scuola, ogni nuovo ministro delibera i) sugli esami di maturità, ii) sugli stipendi degli insegnanti. L’onorevole Valditara non si è sottratto alla tradizione (dopotutto insegna diritto romano) e riportata al pre-Covid la maturità, si è espresso sugli insegnanti, con due affermazioni che gli hanno scatenato contro un autentico bailamme. La prima, che bisognerebbe pagare diversamente gli insegnanti che insegnano in zone dove la vita è più cara; la seconda, che bisognerebbe dare più spazio ai finanziamenti dei privati.



1) Sul primo punto, o almeno sulla seconda parte, per cui gli insegnanti hanno evocato le gabbie salariali che parametravano le retribuzioni al costo della vita e sono state abolite nel 1972, non ho la competenza per dare una risposta esauriente, e rimando alle osservazioni di Anna Maria Poggi: penso però che il fatto che gli insegnanti siano pagati tutto allo stesso modo, indipendentemente dalle funzioni svolte, dalle condizioni di lavoro e dalla qualità del lavoro stesso, legando gli avanzamenti esclusivamente all’età, non solo è la negazione dell’equità, ma è uno dei principali motivi di scontento: la maggior parte dei docenti gradirebbe certamente di essere pagata di più, ma soprattutto vorrebbe che ci fossero delle distinzioni. Chi pensa e sostiene che 800mila e più insegnanti siano tutti uguali quanto a competenza e impegno, probabilmente mette sul davanzale il cibo per le renne di Babbo Natale.



Limitandomi a situazioni già in vigore in altri Paesi europei, ricordo che sono pagati di più (più del minimo salariale dove esiste, di più in assoluto sul libero mercato):

– gli insegnanti difficili da trovare, cioè quelli delle materie scientifiche e tecniche, e questo non perché i barbari non italici disprezzano la cultura umanistica, ma perché questi laureati hanno una domanda molto più elevata e a condizioni migliori, e quindi oltre a far leva sulle motivazioni elevate, devono essere attirati da retribuzioni concorrenziali oltre che dalla certezza del posto di lavoro, che pure esercita una forte attrazione, come dimostrano gli insegnanti che passano allo Stato dal sistema paritario anche in condizioni ambientali peggiori;



– gli insegnanti che lavorano in scuole “difficili”, frequentate da ragazzi in condizioni socioeconomiche svantaggiate o in zone “di frontiera” (periferie urbane, piccoli centri isolati) che dovrebbero poter disporre di insegnanti preparati, stabili e motivati;

– gli insegnanti che hanno compiti particolari: sono vicepresidi, organizzano l’orientamento, seguono l’alternanza e i rapporti con le imprese, formano i colleghi nell’anno di tirocinio. Nella quasi totalità dei Paesi Ocse (credo siano la totalità, ma dovrei controllare) costituiscono il cosiddetto middle management, quadri intermedi, e sono fondamentali per il buon funzionamento della scuola. L’unicità della funzione docente mi sembra una barba finta per sostenere l’appiattimento delle retribuzioni;

– infine, bisognerebbe ampliare la possibilità di distinguere fra insegnanti a tempo pieno, insegnanti a tempo parziale e insegnanti a contratto, distinzione che già esiste ma è poco sfruttata, anche perché possono essere considerati a tempo pieno anche insegnanti che hanno un secondo lavoro, per esempio un avviato studio professionale, magari intestato alla moglie…

Questi provvedimenti non sostituiscono l’anzianità di servizio, ma si aggiungono ad essa, e in alcuni Paesi accelerano la progressione. In altre parole, se in Italia per raggiungere il massimo dello stipendio ci vogliono 35 anni, in Gran Bretagna il tetto si può raggiungere in 12/15 anni: gli insegnanti non “prendono di più”, ma se ricadono in particolari categorie come quelle summenzionate i loro scatti di anzianità sono più rapidi.

Più discutibile, anche se delle sperimentazioni sono già state avviate in questo senso, è la possibilità di dare una maggiore retribuzione in base al merito, il cosiddetto pay per merit: sarebbe opportuno avviare un dibattito non ideologico su questa ipotesi – la reputo migliore di quella di chi in tempi recenti proponeva di differenziare in base al numero di corsi di aggiornamento seguiti dagli insegnanti –, ma ci si imbarcherebbe su un terreno difficile e conflittuale.

2) La seconda affermazione riguarda la possibilità di utilizzare una maggiore quota di fondi privati per finanziare l’istruzione in generale e, mi pare di capire, per coprire i maggiori costi degli stipendi. Niente di nuovo: nelle scuole popolari dell’Inghilterra dell’Ottocento gli insegnanti venivano pagati dalle famiglie, e mi pare di ricordare che nell’università medievale erano gli studenti a scegliere e retribuire i professori. A chi obietta che si svenderebbe la scuola ai privati e le aziende sarebbero disposte a finanziare gli istituti solo in alcuni territori, il ministro replica che la soluzione è “la creazione di un fondo perequativo centralizzato ministeriale”. Io sul fondo perequativo centralizzato e ministeriale preferirei non esprimermi perché sono contraria al turpiloquio, e sul rischio che un privato voglia comperarsi la scuola vedo molto preoccupante che, al contrario, ritenga di non doversene occupare per niente.

Noto però – e i dati Ocse lo testimoniano da sempre – che l’Italia è fra i Paesi in cui gli investimenti privati in istruzione sono più bassi (al 21esimo posto su 31 Paesi esaminati nel rapporto del 2022), e i fondi non provenienti dallo Stato vengono dalle famiglie, e non dalle imprese, che dovrebbero semmai essere incoraggiate, con sgravi fiscali o altri provvedimenti, a investire anche in zone dove non hanno un interesse immediato di formazione degli addetti. Al di là del dovere dello Stato di provvedere alla formazione di tutti i suoi cittadini, il fatto che le imprese fatichino a investire in istruzione mi fa pensare che, forse, la considerano un’impresa decotta e fallimentare. Ed è a questa convinzione, scettica o cinica che sia, che le politiche educative dovrebbero opporsi, invece di accettare passivamente che la scuola sia, come scriveva Marzio Barbagli cinquant’anni fa, il luogo in cui si riciclano i laureati in eccesso.

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